LA GRAZIA DELLA VOCAZIONE
In quell'anno, infatti,
Karol, pur non interrompendo il lavoro alla «Solvay», e pur
continuando ad appartenere al gruppo teatrale, entrò nel Seminario
clandestino metropolitano teologico di Cracovia. Il mistero della vocazione
«alla grande preghiera di tutte le cose: degli uomini e del mondo»
come dirà durante quegli esercizi spirituali in Vaticano il futuro Papa -
è sempre inesplicabile. E tanto più ci resta impenetrabile se
consideriamo il caso di questo giovane brillante, studente di filologia,
appassionato di letteratura, di arte e di sport. Certamente i fattori
determinanti di questa sua grande decisione furono molteplici, primo fra tutti
la profonda religiosità che talvolta toccava la vetta del rapimento
mistico, come accadde durante la liturgia della Parasheve nella Cattedrale. E
poi - l'amicizia con Giovanni Tyranowski di cui subì il fascino del
fervido apostolato. E poi - la dura lezione della guerra, e poi ancora il dolore
inflittogli dalla morte del padre.
Ma tutto ciò che aveva fatto
fin'ora non era forse un predestinato incamminarsi sulla via del servizio di
Dio?
Persino la sua iscrizione alla facoltà di filologia non apparve
forse casuale ed inaspettata agli occhi stessi dei suoi compagni di liceo, che
pure non ignoravano la profonda cultura umanistica di Lolek?
Sacerdozio,
allora.
Una scelta che addolorò Kotlarczyk. Egli stimava troppo il
talento scenico di Karol Wojtyla per non meravigliarsi, per non cercare di
dissuadere l'amico da quella decisione. «Il compianto Kotlarczyk sosteneva
che la mia vocazione fosse quella della parola e del teatro - dirà il
Santo Padre durante il suo viaggio in Polonia, a Skalka - Gesù invece
sosteneva che fosse il sacerdozio, e ci siamo accordati su questo
punto».
Non a caso questo Papa parlerà spesso dell'importanza
della famiglia, della bellezza del suo amore e della sua missione divina; egli
che la famiglia l'ha persa troppo presto, ma che l'ha ritrovata in quell'anno
della «grande decisione» in seno alla Chiesa, santificato dalla grazia
della vocazione alla vigna del Signore, e confortato dall'amore e dalla saggezza
dei suoi maestri.
Immaginate il sorriso di compiacimento del Principe
Metropolita quando riconobbe nel novizio il ragazzo che una volta, a Wadowice,
gli aveva letto il discorso di commiato!
Da quel momento la generosa
benevolenza dell'arcivescovo Sapieha accompagnerà Karol Wojtyla come una
stella nel firmamento della notte nazista, come fu definito quel periodo storico
in una iscrizione sul monumento dedicato a Sapieha ed eretto davanti al palazzo
arcivescovile di Cracovia.
IL CHIERICO
Fino all'agosto 1944 il chierico Wojtyla frequenta
la facoltà di teologia presso l'Università Jagellonica (che
seguitava ad essere clandestina) pur continuando a lavorare alla
«Solvay».
Poi ci fu l'episodio dell'incidente stradale: sulla via
Konopnicka Karol viene investito da un camion tedesco e rimane tutta la notte
svenuto in un fossato, fino a che, la mattina dopo, non viene scorto da una
donna e trasportato in ospedale, dove a stento riesce a riprendere conoscenza.
È in questo periodo che Karol lascia il lavoro e la casa di via Tyniecka per
trasferirsi nel palazzo arcivescovile in via Franciszkanska (il nome viene dalla
vicina chiesa dei frati Francescani), secondo la decisione del Principe
Metropolita. L'Arcivescovo infatti ha deciso di raccogliere tutti i seminaristi
nel suo palazzo e di dar loro la tonaca, perché nella tragica notte del 6
agosto la Gestapo aveva effettuato una enorme retata in città (in quella
notte furono arrestati quasi settemila uomini!), per prevenire eventuali
reazioni a catena all'insurrezione di Varsavia. Si dice che l'ultimo ad arrivare
fosse Karol Wojtyla: senza giacca, con i pantaloni di panno, gli zoccoli ai
piedi e due quaderni sotto il braccio.
Le assenze dell'operaio Wojtyla
naturalmente attirarono l'attenzione dell'Arbeitsamt (l'ufficio del lavoro) che
incomincia a cercarlo dappertutto, minacciando gli abitanti di via Tyniecka ed i
suoi stessi compagni di lavoro. Le minacce potevano diventare una terribile
realtà sia per il fuggiasco che per i suoi amici. Allora l'Arcivescovo
Sapieha, l'autorità spirituale della Polonia martoriata, intraprende i
suoi passi presso il direttore della «Solvay» per cancellare il nome
del chierico dall'elenco degli operai. E fu così che il famigerato
Arbeitsamt smise di perseguitare Wojtyla.
Il fatto che il futuro Papa abbia
dovuto lavorare forzatamente come operaio, ed abbia dovuto nascondersi per
studiare la teologia e per sfuggire alla polizia che lo braccava, ci fa
rapportare per analogia i tempi moderni a quelli antichi delle persecuzioni ai
primi cristiani.
Cracovia viene liberata il 18 gennaio 1945. Malgrado fosse
stata destinata alla rovina, la città fu salva e furono salvi i suoi
secolari monumenti già minati dai Tedeschi.
Tutti i cittadini si
misero all'opera in quella città che sembrava ancora una fortezza. Anche
i seminaristi uscirono finalmente fuori dal loro nascondiglio dove, fino ad
allora, avevano studiato, dormito e preso una boccata d'aria nell'angusto
cortiletto.
Anche Wojtyla prese parte ai lavori di ripristino e si rese
attivamente utile nell'Unione degli Studenti, chiamata «Bratniak»
(«L'aiuto fraterno tra studenti»).
Dal novembre 1945 all'agosto
tenne lezione di dogmatica nella facoltà di teologia
all'Università. Questo posto di assistente fu senz'altro un
riconoscimento del suo valore.
Suoi colleghi di assistentato furono anche
il rev. Józef Rozwadowski, oggi vescovo di Lódz, e più
tardi altri due seminaristi: il rev. Juliusz Groblicki ed il rev. Stanislaw
Smolenski, oggi vescovi di Cracovia.
In quel periodo debuttò pure
come poeta in un mensile edito dai Padri Carmelitani Scalzi di Cracovia, nel
quale pubblicò, come anonimo, il poema «Canto sul Dio nascosto»
suddiviso in tre parti: «Le rive piene di silenzio»,
«Perché Tu sei il silenzio stesso», «Il canto sul silenzio
inesauribile» («Glos Karmelu», nr. 1-3, 1946 e nr. 3 e 5,
).
Di che cosa scriveva il giovane autore in abito talare in quel suo
poema accompagnato dalla illustrazione che riproduceva la «Barca di S.
Pietro» di Giotto?
Egli ci conduce nel mondo della contemplazione
religiosa e sembra voler rendere una confessione prima di intraprendere il
servizio di Dio. La simbologia del mare, della luce, delle foglie tremolanti
rappresenta i moti dell'anima imbevuta del «grande silenzio» del
Signore, di tutti i tesori il più prezioso.
Leggiamo qualche
frammento di questo poema poco conosciuto e non sottoscritto, neanche con uno
pseudonimo:
Lentamente tolgo luce alle parole
e raduno i
pensieri come un gregge di ombre
e piano in tutto immetto il nulla
che
attende l'alba della creazione.
Per creare uno spazio
alle Tue
mani tese
e avvicinare l'eterno
in cui Tu possa
alitare...
Inappagato dal giorno della creazione
io bramo un
nulla crescente
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del
Tuo amore.
Cosa significa se scorgo tante cose quando non vedo
niente
quando ormai l'ultimo uccello sparisce oltre
l'orizzonte.
quando un'onda lo nasconde nel suo cristallo -
io scendo
ancora più in basso
immergendomi, insieme all'uccello, nel fotto
fresco, cristallino.
E più aguzzo lo sguardo, meno riesco a
vedere,
e l'acqua obliqua sotto il sole dà un riflesso tanto
più vicino
quanto più lontana è l'ombra che la divide
dal sole,
quanto più lontana è l'ombra che dal sole divide la
mia vita.
Nell'oscurità dunque vi è tanta
luce
quanta vita vi è nella rosa sbocciata,
quanta presenza vi
è di Dio che sale
sulle rive dell'anima.
Con Te portami
ad Efrem, Maestro, e lascia ch'io rimanga con Te
là dove rive
lontane discendono su ali di uccelli
come il verde, come onda gonfia, non
sfiorata né
intorbidita dal remo,
come un grande cerchio
sull'acqua, non turbato da
un'ombra di sgomento
Ti ringrazio
perché hai portato la dimora dell'anima
lontano da ogni
fragore
e come amico vi soggiorni, circondato dalla tua
sorprendente
povertà
O immenso! Occupi solo una minuscola cella
ed ami
luoghi vuoti e solitari.
Perché Tu sei il silenzio stesso,
questo grande Tacere,
da ogni suono di voci fammi libero,
ed entra in
me Tu solo, col tuo fremente essere
e col vento che trema fra le mature
spighe.
Il silenzio al posto delle parole, dello strepito, della
voce: l'intimità al posto dell'esuberanza del mondo, questi sono
senz'altro i segni di questo poema, «Lentamente tolgo luce alle
parole...»: suona quasi come un addio alla letteratura ed all'arte; ma
spiega anche uno stato d'animo più generale: l'autore non aveva alcuna
intenzione di rincorrere l'alloro dei poeti; evitava invece tutto ciò che
poteva distoglierlo dalla sua vera vocazione: il sacerdozio.
In uno dei
suoi schizzi letterari Tadeusz Kudlinski, famoso critico teatrale, ricorda un
fatto molto significativo: «Raccoglievo in quel tempo - scrive Kudlinski -
i testi per un'opera collettiva su Cracovia, sulle sue vicende e suoi
personaggi, fra i quali la curiosa figura di frate Alberto. A chi dovevo
rivolgermi se non a Karol? Gli avanzai tale proposta durante la visita nel
seminario. Karol ci pensò un momento, poi ringraziò cortesemente
dell'invito, ma rifiutò di scrivere quell'articolo, giustificando il
diniego con una confessione: si era ripromesso di non scrivere fino a quando non
avesse finito gli studi e ricevuto gli ordini sacerdotali. L'intenzione di
allontanare le tentazioni letterarie era ferma e bisognava
rispettarla.
Credo che questo sia un particolare molto indicativo del suo
carattere, una testimonianza della vera vocazione».
LA «VOCE DEL CARMELO»
Non per caso «Il canto sul Dio nascosto»
fu pubblicato sulla «Voce del Carmelo», un mensile «dedicato ai
profondi problemi spirituali», come spiegava il sottotitolo.
Lo
distingueva il tono tipico dei Carmelitani. Il Dio nascosto; l'anima tra la luce
e le tenebre che cerca di scuotersi di dosso tutti i valori temporali per
cercare il suo Sposo, il Signore; questi sono gli elementi immancabili del
misticismo dei grandi Carmelitani, come, ad esempio, S. Giovanni della Croce.
Qui è necessario tener presente che in quel periodo il chierico Wojtyla
desiderava appunto farsi frate carmelitano e voleva trascorrere il noviziato a
Czerna, un affascinante luogo vicino a Cracovia, dove si trova il loro
convento.
Le mura di questo convento, che si adagia maestosamente sulle
falde di un colle boscoso, conservano il ricordo di padre Raffaele Kalinowski
che lì è sepolto. La figura di questo monaco, amico di frate
Alberto, ed al pari di questi, patriota combattente durante l'insurrezione del
, doveva essere probabilmente vicina al cuore del futuro papa fin dai tempi
della sua giovinezza. Padre Raffaele dimorava un tempo a Wadowice, dove
fondò un convento dei Carmelitani. Ingegnere di professione, era dotato
di grande nobiltà d'animo e di profondo amor patrio. Fu proprio il suo
patriottismo a condurlo alla rivolta contro lo Zar e a rendergli drammatica la
vita.
Ma il sogno di Karol Wojtyla di vestire l'abito carmelitano non si
sarebbe dovuto avverare perché il Principe Metropolita, ritenendo che
nell'Arcidiocesi fossero più necessari, dopo le perdite della guerra, i
preti non conventuali, non autorizzò il suo ingresso nel convento. Si
disse più tardi che il giovane sacerdote avesse ripetuto il tentativo di
diventare frate carmelitano, entrando nel convento di via Rakowicka, ma questa
notizia non è mai stata confermata e non ha fondamento.
GLI ORDINI SACERDOTALI
Karol Wojtyla ricevette l'ordinazione sacerdotale
il primo novembre 1946 assieme ad altri due chierici del tempo di guerra:
Leonard Haredzinski e Marian Kolasa.
L'ordine sacerdotale fu preceduto
dagli ordini minori e dali altri maggiori con questo calendario: il 9 novembre
Karol Wojtyla ricevette la tonsura, il 17 dicembre dello stesso anno gli
ordini minori dell'ostiariato e dell'elettorato; il 21 dicembre 1945 gli ordini
minori dell'esorcistato e dell'accolitato; il 13 ottobre 1946 l'ordine del
suddiaconato; e il 20 ottobre quello del diaconato. Infine fu ordinato sacerdote
dal Principe Metropolita nella sua cappella privata: tale fretta fu determinata
dalla opportunità di incominciare i nuovi studi all'estero.
Il
giorno dopo l'ordinazione, festa dei morti, la Cripta di S. Leonardo a Wawel
dove sono sepolti il re Jan Sobieski e sua moglie Marysienka, il re Michal
Korybut Wisniowiecki, il principe Józef Poniatowski e l'eroe nazionale
Tadeusz Kosciuszko fu testimone di una commovente messa. Tra le sue mura
romaniche, come in un eremo buio e silenzioso, tra i sarcofaghi di pietra sui
quali timidamente brillavano le candele qua e là fissate nelle corone
ornate di nastri bianchi e rossi, il giovane Wojtyla celebrò tre messe:
le prime della sua vita.
La prima la celebrò in suffragio delle
anime della madre, del padre, della sorella e del fratello; la seconda, in
conformità alla prassi ecclesiastica, per tutti i morti; e la terza,
secondo l'intenzione indicata ai sacerdoti dal Santo Padre.
Officiando le
messe in quel modo Wojtyla usò del privilegio di Benedetto XV, concesso
durante la prima guerra mondiale, che permetteva, nel rispetto di determinate
condizioni, di celebrare un triplice sacrificio nel giorno dei defunti.
Manuductore (cioè colui che conduce per mano) del giovane sacerdote fu il
reverendo Figlewicz.
Fu lui a ricordarci che tutte e tre le messe vennero
celebrate dinanzi all'altare della cripta di S. Leonardo, ciò in
contrasto con la versione riportata nei suoi scritti dal reverendo Mieczyslaw
Malinski secondo la quale la seconda e la terza messa di Karol Wojtyla avrebbero
avuto luogo nella confessione di S. Stanislao. Nella cripta non c'erano molte
persone, ma non mancavano gli attori del teatro Rapsodico e gli amici di
Wadowice e della «Solvay».
Qualche giorno dopo aver celebrato le
messe a Wawel e nella chiesa di Debniki, il neosacerdote si trovò davanti
all'altare di Wadowice per la Messa del noviziato. Salutato dal pulpito dal suo
vecchio catechista, reverendo Zacher, pregò per la prima volta nella
comunità della parrocchia familiare. Pregò nella città dove
era cresciuto, amato e stimato, e dove avrebbe potuto sempre bussare a qualsiasi
porta: era tra i suoi. Eppure in quel giorno dovette provare un doloroso
rimpianto nel rivedere la sua casetta di via Koscielna.
Karol Wojtyla il giorno della sua ordinazione
LA VILLA «SOTTO I TIGLI»
Non aveva più casa.
Non sapeva dove
organizzare il piccolo ricevimento per festeggiare il noviziato e non poteva
neppure contare sull'ospitalità della madrina di battesimo, che non
avrebbe mai osato ricevere degli ospiti in vesti sacerdotali nella sua troppo
modesta casa alla quale, oltretutto, si accedeva tramite il cortile.
Fortunatamente arrivarono in suo aiuto, e non per la prima volta, la signora
Irena Szkocka e sua figlia Zofia Pozniakowa. Con la famiglia Szkocki, Wojtyla
manteneva rapporti di vera amicizia fin da prima della guerra, quando gli
Szkocki abitavano nella villa «Sotto i tigli» sui pendii delle rive
della Vistola, in via Principe Giuseppe.
La villa e il nome stesso della
strada ci fanno tornare con la memoria all'epoca del Principato di Varsavia e
agli ultimi capitoli gloriosi dell'epopea napoleonica. Nel giardino che recinge
la villa, ai piedi di tre tigli antichi, si trova una pietra con questa
iscrizione:
Quando tutte le tristezze si riversavano sull'anima
mia,
Quando cercavo di dar sfogo al dolore,
Qui venivo a meditare, in
questo luogo solitario.
Con me c'erano solo la speranza i ricordi.
Mi
consolavano l'innocenza del mio cuore,
Il cielo calmo, e
l'ospitalità sincera degli abitanti.
Sotto questa poesia
c'è la firma di Zofia Czartoryska Zamoyska, e la data: 8 maggio 1813.
L'autrice dei versi era sorella del principe Adam Czartoryski e moglie di uno
degli uomini politici più attivi di quel tempo, collaboratore dello
stesso principe Józef Poniatowski, il quale proprio ai primi di maggio
del 1813 partì con i suoi soldati da Cracovia nella direzione di Lipsia:
ma la sua tragica morte a Elstera fece naufragare le speranze irredentiste dei
Polacchi, allontanando ancor più il giorno della liberazione.
Forse
erano questi i tristi pensieri che opprimevano l'animo della principessa quando
passeggiava sotto i tigli.
Quella casa fu poi frequentata da giovani
artisti e letterati, pittori e musicisti di belle speranze che colà
convenivano per presentare le loro prime opere; fra costoro vi era pure Karol
Wojtyla. Ma durante la guerra la casa fu requisita dai Tedeschi ed i proprietari
ne furono scacciati. Tutta la compagnia allora si trasferì in via
Szwedzka 12; là il giovane sacerdote organizzò appunto la sua
prima festa in occasione del noviziato.
IL PRIMO VIAGGIO ALL'ESTERO
Il 15 novembre 1946 due giovani sacerdoti partono
alla volta di Roma: Karol Wojtyla e Stanislaw Starowieyski, di due anni
più giovane di lui.
Durante il loro soggiorno nella
«città eterna», essi continueranno i loro studi di teologia e
di filosofia, secondo il desiderio espresso dal Principe Metropolita.
Sarà questa, oltre tutto, una scuola di cultura europea; infatti i due
sacerdoti abiteranno, anziché presso preti polacchi, nel collegio belga
(in via del Quirinale), dove avranno occasione di perfezionare la loro
conoscenza del francese.
Negli anni 1946-48 Wojtyla studiò nel
famoso istituto domenicano di filosofia, l'Angelicum, che insieme con Lovanio e
Friburgo era il più importante centro del pensiero tomistico.
In
quel periodo il Dottore d'Aquino vedeva rifiorire la sua popolarità;
infatti il suo sistema filosofico, così chiaro, preciso e realistico,
piaceva persino agli intellettuali che pur non accettavano la sua teologia.
Sotto la penna dei suoi sostenitori i testi di San Tommaso venivano ad
acquistare un significato particolarmente moderno, specie in relazione ai
problemi sociali e culturali che scuotevano l'Europa di allora. Il suo sistema
filosofico, introducendo la logica nella metafisica, conferiva a questa il suo
antico splendore, riuscendo altresì ad affascinare per le sue concezioni
antropologiche e per la sua filosofia morale. Con l'Assoluto dedotto dalle
operazioni intellettuali, con i concetti degli enti finemente definiti, con la
legge eterna e con l'elogio della ragione, questa filosofia si accordava
perfettamente con l'idea di Dio, con la concezione della Creazione, con
l'insegnamento evangelico, il principio del primato dell'uomo nel mondo
circostante, ed infine, con l'istituzione della Chiesa come portavoce
indispensabile di queste verità.
Naturalmente il giovane sacerdote
polacco già conosceva tanto il pensiero dell'Aquinate quanto i suoi
esegeti del ventesimo secolo, ma, trovandosi proprio nel centro del movimento
neo-tomistico di cui l'Angelicum era la cattedra (l'istituto venne elevato al
rango di Università pontificia di S. Tommaso d'Aquino nel 1963, da Papa
Giovanni XXIII), ed avendo occasione di conoscere personalmente padre Reginaldo
Garrigou-Lagrange, il protagonista più illustre di quel movimento, ne
divenne entusiasta.
In una lettera indirizzata alla «nonna»,
Irena Szkocka, Karol Wojtyla così si esprimeva: «... Che cosa allora
stiamo compiendo? Circa gli studi su S. Tommaso ci sarebbe da parlare a lungo.
Il suo sistema filosofico è incredibilmente bello ed affascinante, e per
di più riesce ad essere convincente grazie alla sua semplicità.
Dunque la profondità di pensiero non necessita di troppe parole per
esprimersi. E poi un'altra cosa mi sta a cuore: passeggiare per Roma, inoltrarmi
nelle viuzze antiche. Ma di ciò non posso raccontare in poche parole:
troppi sono gli aspetti diversi e le sfaccettature. L'uomo scopre ad ogni
piè sospinto un dettaglio nuovo e con esso ritrova sempre più
profondamente se stesso. Mi ci vorrà del tempo per catalogare tutte
queste impressioni in un sistema ordinato... Deo gratias».
Solo in
apparenza queste annotazioni hanno l'aria di essere sbrigative e non del tutto
necessarie; in realtà questo frammento di lettera ci dà la misura
di quanto Karol Wojtyla fosse rimasto affascinato dal tomismo, e ci spiega
perché questa sua predilezione filosofica non lo abbandonerà mai,
neanche quando egli si accosterà ad una filosofia diversa e più
moderna quale la fenomenologia.
E inoltre, proprio tramite questa lettera,
noi possiamo immaginare un Wojtyla che ama girovagare per le viuzze della
capitale della cristianità e che, da buon intellettuale, sente la
necessità di riordinare la gran mole di impressioni, le più
disparate, che gli affollano la mente.
Karol Wojtyla (il primo a sinistra) ospite a Roma del collegio belga
L'INCONTRO CON L'OCCIDENTE
Nell'estate 1947, dopo la licenza in teologia, il
reverendo Wojtyla parte per la Francia, il Belgio e l'Olanda, assecondando anche
questa volta i desideri dell'Arcivescovo Sapieha, che intendeva far conoscere al
futuro Pastore della Chiesa i metodi pastorali adottati in tutta
Europa.
Parigi, Marsiglia, la grotta miracolosa di Lourdes, Bruxelles, le
città della Francia settentrionale: ecco le tappe del viaggio. In questi
quattro mesi registrò impressioni del tutto diverse da quelle provate a
Roma e in Italia, dove il temperamento meridionale esprime un tipo di
cattolicesimo vivace e colorito che è retaggio di antiche tradizioni
cristiane. Il Nord Europa, invece, e la Francia in particolare, lo urtava con la
sua freddezza, con il suo scetticismo che quasi sembrava non accorgersi di Dio.
È vero che, dopo la tremenda esperienza della guerra, l'Occidente si stava
dimenando tra angosciosi interrogativi esistenziali, ma le risposte preferiva
cercarle piuttosto altrove che non nella religione. Infatti lo scettico, quel
superficiale libertino di una volta, amava ora coltivare le formule
dell'esistenzialismo sartriano, e non perdeva occasione per farle proprie ed
esibirle così come sfoggiava il maglione nero, divisa e simbolo
dell'esistenzialismo stesso.
«Dio, valore e meta più alta della
trascendenza, rappresenta il fine costante partendo dal quale l'uomo annuncia se
stesso. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, oppure, se lo si
preferisce: l'uomo è sostanzialmente desiderio di diventare Dio»,
sosteneva Sartre, sottolineando che l'uomo veramente libero e forte è un
uomo senza Dio, senza la umiliante ricerca dell'Assoluto; l'uomo che, in un
certo modo, crea se stesso, crea anche le proprie leggi, perché soltanto
gli uomini deboli congiungono le mani in atto di preghiera. Ed allora Claudel,
eccellente scrittore cattolico, ironizzava nel suo «Diario»:
«Sartre sostiene che Dio è morto, ma dimentica che Dio ha la brutta
abitudine di risorgere al terzo giorno».
Dunque, in quel mondo che si
decristianizzava, sorgevano iniziative e idee che attingevano linfa dal pensiero
cattolico, e che suscitavano attenzione, anzi un interessamento tutto
particolare. Queste idee però non si propagavano ad una vasta cerchia di
persone e difficilmente le si potrebbe considerare rappresentative della massa
dei fedeli.
Tutto ciò non sfuggiva all'attenzione del sacerdote
venuto dalla Polonia, che cercò di accostarsi ai giovani lavoratori
francesi raccolti intorno alla J.O.C. (Jeunesse Ouvrière
Chrétienne). Segretario della organizzazione era un belga, il reverendo
Marcel Eulembroeck, amico di Wojtyla fin dai tempi dell'Angelicum. In
particolare due sacerdoti della J.O.C., Godin e Daniel, attirarono l'attenzione
di Wojtyla per le idee esposte in un loro libro, assai diffuso in Francia,
intitolato: «La France pays de mission?», la Francia paese di
missione? La Francia un paese che da capo bisognava avvicinare al Cristo,
nonostante la sua plurisecolare tradizione cristiana ed il nobile titolo di
«figlia primogenita della Chiesa»?
MISSIONE IN FRANCIA
Proprio questo libro e le impressioni riportate
dalla Francia furono il tema di un articolo di Wojtyla, pubblicato nel 1949 sul
«Tygodnik Powszechny» («Settimanale Universale») di
Cracovia, con il titolo di «Mission de France». In esso l'autore
descriveva gli sforzi del movimento «Mission de France», fondato dal
reverendo Godin, che tendeva a modificare le forme esistenti
dell'attività pastorale. Con una forte dose di simpatia si parlava in
quell'articolo dello spirito di povertà e dell'imparzialità che
caratterizzavano queste azioni e si segnalava la tendenza a semplificare la
liturgia; si informava altresì che era in corso la formazione di un nuovo
tipo di sacerdote e persino di un nuovo tipo di cattolico secolare.
Proprio
dal movimento «Mission de France» uscirono i preti-operai che, oltre a
svolgere i loro compiti sacerdotali, lavoravano nelle fabbriche, cercando in
questo modo di avvicinarsi ai lavoratori manuali per riconquistarli alla Chiesa,
il che costituiva la fondamentale scommessa di questo movimento
riformatore.
Wojtyla osserva che questo nuovo modello di apostolato
«è una delle forme irruenti della rivelazione dello Spirito Divino,
che segna la vita della Chiesa, indicando sempre diversi e mai battuti
sentieri».
UNA GRANDE ILLUSIONE?
Come si sa, il movimento dei preti-operai non
ottenne l'approvazione della Santa Sede, anche se non si metteva in dubbio la
lealtà delle intenzioni che lo ispiravano: sotto certi aspetti anzi
l'attività della J.O.C. poteva essere utile ad instaurare un rapporto
più intenso fra il cattolicesimo e la realtà dei nostri tempi. Nel
il cardinal Wojtyla, nel suo libro «Alle basi del rinnovamento»,
dedicato ai problemi del Concilio Vaticano II, scriveva che i giovani della
J.O.C. avevano capito la grande importanza della partecipazione attiva dei
cattolici laici alla vita della Chiesa e avevano formulato e sviluppato un
metodo di apostolato laico che fu poi sancito dal Concilio Vaticano II nel
Decreto sull'apostolato dei laici.
In quella movimentata estate del 1947 il
reverendo Wojtyla visitò pure i centri operai dei Polacchi emigrati in
Belgio ed in Francia, dove s'imbatté in un tipo di cattolicesimo ben
diverso da quello conosciuto in Polonia. Anche a proposito di questi emigrati
polacchi, molti dei quali, in quel periodo, stavano facendo ritorno in patria,
si potrebbero citare le amare profezie di Mounier: «In molti paesi
dell'Occidente ci si domanda se il cristianesimo, che a noi sembra ancor forte,
non sia al giorno d'oggi una grande illusione. Sullo sfondo delle cerimonie
tradizionali e della corrente assonnata delle folle, si possono notare, minuti
ma sempre più fitti - come le gocce della pioggia che preannuncia la
tempesta - i segni di un diluvio, forse catastrofico, che cancellerà le
vestigia del cristianesimo».
Il giovane sacerdote seguiva senz'altro
con attenzione le opinioni del fondatore di una delle correnti del
«personalismo» nascente, e non tralasciava di leggere ogni articolo di
«Esprit», il periodico fondato dallo stesso Mounier. Sulle diagnosi
del pensatore francese era indotto a meditare profondamente, anche per
l'esperienza maturata a contatto con un Occidente ormai reso laico, accanto ai
lavoratori emigrati del suo paese.
PERSONALISMO TOMISTICO...
Dobbiamo soffermarci un momento su questo punto per
capire in quale contesto culturale maturavano le scelte intellettuali di
Giovanni Paolo II: Mounier ed il suo personalismo sono, per questo aspetto,
degni di una attenzione particolare. Non dimentichiamo che l'Angelicum, avendolo
introdotto alla comprensione dei significati più profondi del pensiero di
S. Tommaso aveva, per ciò stesso, sensibilizzato Wojtyla alle idee del
moderno «personalismo», anche se non proprio nella forma radicale del
Mounier, il quale, con le sue implicazioni sociali e politiche, finiva per
essere troppo coinvolto in questioni pratiche e contingenti che esulano da
competenze religiose. Infatti, questa filosofia partiva dalle premesse
teologiche e filosofiche del pensiero di S. Tommaso, in special modo dalla sua
filosofia morale e dal famoso principio secondo il quale l'uomo è prima
di tutto «rationalis» o addirittura, come diceva Boezio: «persona
est rationalis naturae individua substantia» (la persona è sostanza
individuale di natura razionale). Ecco così enunciati i due principi
basilari di questa nuova filosofia: l'individuo e la persona. Intorno a questi
cardini s'intreccia poi una gran moltitudine di altre precisazioni filosofiche
legate alla dottrina cristiana.
Per questo, tale sistema filosofico fu
denominato «personalismo tomistico». Ebbene, esso influirà in
maniera determinante sull'evoluzione del pensiero etico e sociale di Karol
Wojtyla. Lui stesso dirà, durante la IV Settimana Filosofica organizzata
nel 1961 dal Circolo Filosofico Cattolico dell'Università di Lublino:
«Il personalismo tomistico parte dal presupposto che il bene individuale
della persona dovrebbe essere subordinato al bene comune al quale mira la
collettività: la società. Ma questa subordinazione non può
in alcun modo cancellare, o semplicemente svalutare la persona stessa. Esistono
dei diritti della persona umana che devono essere garantiti dalle leggi della
società. Senza queste leggi, infatti, non è possibile la vita
della persona e la sua corretta evoluzione. La più importante di esse
è la legge della libertà di coscienza, che è nemica del
totalitarismo cosiddetto oggettivo, secondo il quale la persona umana dovrebbe
essere totalmente sottomessa, in tutte le sue espressioni, alla società.
Il personalismo tomistico sostiene invece che la persona si deve subordinare
alla società solamente in ciò che è indispensabile al bene
comune, partendo dal principio che il vero bene comune, anche se chiede alle
persone seri sacrifici, non sarà mai una minaccia al vero bene
individuale».
... E SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Nel frattempo il giovane sacerdote Karol Wojtyla
tornava ancora ad interessarsi, con rinnovato entusiasmo, al misticismo, subendo
questa volta la suggestione del frate carmelitano e grande poeta lirico spagnolo
S. Giovanni della Croce, così come un tempo aveva subito il fascino del
mistico Jan Tyranowski. Il reverendo Wojtyla scoprì in San Giovanni della
Croce un «maestro e guida delle anime protese verso Dio», il
perspicace cantore della «buia notte» che unisce l'anima a Dio, un
delicato disegnatore degli stati d'animo dell'uomo il quale, quando ritrova se
stesso, scopre la sproporzionata piccolezza della propria natura, il
«buio», nel confronto con l'immensità di Dio.
Fu
così che nacque la dissertazione «Quaestio de fide apud S. Joannem a
Cruce», presentata come tesi di laurea a padre Garrigou-Lagrange, che era
un grande ammiratore ed un famoso commentatore del «Dottore Mistico»,
o «Dottore della Notte», come veniva chiamato S. Giovanni della Croce.
Egli asseriva di poter cogliere punti di contatto tra i rapimenti mistici del
grande carmelitano spagnolo e la filosofia di S. Tommaso, il che non doveva
essere facile se si tien conto della giusta opinione di Jacques Maritain:
«Consideriamo S. Giovanni della Croce un eminente dottore della più
alta incomunicabile scienza, mentre invece S. Tommaso d'Aquino come un eminente
dottore della scienza comunicativa».
Mentre scriveva la tesi su S.
Giovanni della Croce, il rev. Wojtyla certamente pensava al suo amico sarto Jan
Tyranowski, che nel frattempo si era ammalato, ed al coraggio con cui sopportava
le sofferenze che la volontà divina gli imponeva. «Ringrazio tanto
la cara nonna - così scriveva Wojtyla alla signora Szkocka - per tutte le
notizie sul nostro Jan. Sì, sì, questo è il corso naturale
delle cose: il Signore distrugge in questo modo quelli che si offrono
volontariamente ad un tale sacrificio. Allego una lettera al caro Giobbe».
Ma la lettera non è mai giunta all'interessato perché Tyranowski,
dopo mesi di sofferenze che ebbero inizio da una puntura d'ago e lo portarono
alla perdita della mano e poi dell'udito ed infine alla paralisi delle gambe, si
spense nel marzo del 1947. Fino alla fine aveva sopportato la sua disgrazia con
la forza d'animo dell'uomo di fede, mostrando il sorriso alla gente e
continuando a parlare di religione.
Nel frattempo Wojtyla attendeva alla
sua tesi; la confusione delle rumorose strade romane non riusciva a coprire la
voce lontana del mistico di Cracovia, che faceva eco alle strofe appassionate
del santo carmelitano:
«Per arrivare a quello che non conosci
devi andare per dove non conosci.
Per arrivare a quello che non possiedi
devi andare per dove non possiedi.
Per arrivare a quello che tu non sei
devi andare per dove non sei» (12),
Questa è l'unica via
attraverso la quale l'uomo può giungere alla
trascendenza.
(12) "Salita al Monte Carmelo", I, 13, 11.
DI NUOVO ALL'UNIVERSITA JAGELLONICA
Si avvicinava il momento del ritorno in
Polonia.
Il 30 giugno 1948 il sacerdote Wojtyla difende la sua tesi e
riceve il titolo di Dottore in Teologia, senza però poterne ritirare il
diploma perché ciò prevedeva una spesa che le possibilità
economiche del nostro sacerdote non erano in grado di sostenere.
Cosa pensa
il neodottore, ora che è giunto il momento di lasciare la città
eterna?
Ecco cosa disse ai Romani, il 25 febbraio 1979, durante
l'Angelus:
Conservo vivamente nella memoria il mio primo incontro con
la Città Eterna. Ciò avvenne nel tardo autunno del 1946, quando
venni qui dopo l'ordinazione sacerdotale per continuare gli studi. Giungendo,
portavo dentro di me una certa immagine di Roma ricavata dalla storia, dalla
letteratura e da tutta la tradizione cristiana. Per parecchi giorni camminavo
per la Città (che allora non era ancora così estesa come oggi, e
contava forse circa un milione di abitanti), e non riuscivo a ritrovare
pienamente l'immagine di quella Roma, che da tempo portavo nella mia
mente.
A poco a poco, la ritrovai. Ciò accadde soprattutto quando
visitai le basiliche più antiche, ma ancor più quando visitai le
Catacombe. La Roma degli inizi della cristianità! La Roma degli Apostoli!
Questa Roma, che sta alle origini della Chiesa, e, nello stesso tempo, alle
origini di quella grande cultura che abbiamo ereditato.
Così
dunque parlò dell'incontro con Roma: ma dell'addio? Quell'addio di anni
fa? Quanti ricordi affollavano la sua giovane mente! L'occupazione nazista della
Polonia, il sacerdozio, l'incontro con il genio rinascimentale e barocco delle
chiese e dei palazzi romani: l'incontro con Michelangelo e con il divino
Raffaello, con la «sua» Roma delle catacombe; e poi ancora la gioia di
poter ammirare le fontane zampillanti verso il cielo dipinto con la delicatezza
di un Leonardo. Quando per l'ultima volta salì le scale della Basilica di
S. Pietro, certamente non pensò che dopo molto tempo, precisamente dopo
trent'anni, avrebbe varcato ancora una volta quella soglia, davanti agli occhi
di tutto il mondo, e ormai per sempre.
Tornato in patria, superò un
altro esame di magistero alla Facoltà di Teologia dell'Università
Jagellonica (novembre 1948), dove ridiscusse anche la dissertazione «Sui
problemi della fede secondo S. Giovanni della Croce», ottenendo ancora una
volta il titolo di Dottore, questa volta in polacco.
La tesi, rispetto alla
stesura preparata per l'Angelicum, venne in alcuni punti corretta grazie
all'aiuto che Wojtyla ricevette dai due sacerdoti professori Ignacy
Rózycki e Wladyslaw Wicher. Ebbe sempre la fortuna di incontrare maestri
e tutori eccellenti!
IL VICARIO DI NIEGOWIC
Quasi contemporaneamente il rev. Wojtyla ricevette
il suo primo incarico pastorale come vicario in una parrocchia di campagna,
Niegowic, vicino a Bochnia. Dal libro dei sacerdoti di Niegowic sappiamo che la
nomina avvenne l'8 luglio 1948, ma che solamente il 28 Wojtyla raggiunse la sua
parrocchia «post studium romanum».
Uno dei parrocchiani ricorda
bene quel giorno: «Andavo con il carro trainato dal cavallo, quando per la
strada vidi un prete vestito malamente, la tonaca quasi logora, le scarpe
vecchie ed una cartella malandata. Quando venni a sapere che questo prete
sarebbe stato il nostro vicario, mi meravigliai immensamente della
povertà del suo aspetto».
Il nuovo vicario sorprese i fedeli:
più di una volta i soldi che riceveva durante le visite di Natale li
regalava ai contadini più poveri; regalò anche le lenzuola,
donategli dai parrocchiani, ad una povera vecchia che era stata appena derubata.
La gente si sdegnava: il loro giovane pastore dormiva sul nudo materasso,
malgrado essi avessero fatto sacrifici per offrirgli un corredo!
Eppure,
riuscì a conquistare il cuore di tutti.
Dopo la messa lo si vedeva
spesso pregare in solitudine nella chiesa; oppure lo si vedeva raggiungere, con
il carretto o con la bicicletta, le più sperdute case di Niegowic, senza
badare alla pioggia o alle strade scoscese, o al buio delle notti di quella
campagna polacca non ancora raggiunta dall'elettricità.
A SAN FLORIANO
Passò un anno e l'arcivescovo decise di
trasferire il vicario Wojtyla nella vecchia e storica parrocchia di S. Floriano,
in Cracovia. Sotto le nobili navate barocche di questa chiesa, una delle cinque
più antiche della città, passarono molti personaggi illustri e
molta gloria. Tornano in mente i nomi del venerato vescovo Wincenty Kadlubek,
colui che consacrò la chiesa; di Wladyslaw (Ladislao) Jagiello, che qui
ricevette il battesimo prima di accedere al sacramento del matrimonio, e
all'incoronazione, e del grande cancelliere del re, Cardinale Zbigniew
Olesnicki, che di questa chiesa era stato parroco.
Il giovane vicario si
sentì accolto dal Kleparz, un quartiere di Cracovia, quasi con la
famigliarità delle sue montagne native di Beskid. La storia ricorda che
Marcin Wadowita fu parroco proprio qui, e ancor prima di lui il Santo Giovanni
Kanty svolgeva qui il servizio sacerdotale; ambedue insegnavano nella vicina
«Alma Mater». Anche adesso la parrocchia era governata da un parroco
preposito proveniente da Wadowice: un ex-cappellano dell'Arcivescovo Metropolita
e membro del Collegio dei Canonici, il sac. Tadeusz Kurowski. Fu lui anche la
guida spirituale degli studenti; le sue magnifiche omelie contribuivano ad
accrescere le schiere dei discepoli; c'è da dire tuttavia che il nuovo
vicario cominciò presto ad essere alla sua altezza: invitato una volta
dalle suore Nazaretane di via Warszawska per tenere un ciclo di conferenze per i
loro assistiti, si rivelò un eccellente conoscitore dell'uomo,
riscuotendo particolare simpatia tra i giovani. Karol, non badando ai rimproveri
di sua zia Stefania, donna piena di sollecitudine che lo aiutava nelle faccende
domestiche, si recava al cinema ed a teatro con i giovani amici della
parrocchia, giocava a scacchi e al calcio, organizzava escursioni in montagna
indossando naturalmente gli abiti borghesi, il che gettava la zia nella
più nera disperazione. Era simpatico a tutti, non solo per la sua giovane
età, per la sua vitalità e abilità fisica, ma soprattutto
per il fascino che esercitava con la sua parola, ponderata e suggestiva, tanto
nelle prediche dal pulpito, quanto nelle conversazioni private.
RITRATTO DI GIOVANE PRETE DA POVERO
Lo scrittore e critico letterario Andrzej Kijowski
conserva di lui questo ricordo: «Era smilzo, portava un berretto sbiadito,
una sottana troppo corta dalla quale venivano fuori le braghe grige. Le mani
sempre nascoste nelle tasche, un leggero mantello. Lo sguardo acuto, il passo
svelto. Molto diverso dai nostri sontuosi prelati che si coprono con ampi
mantelli, indossano cappelli a larghe falde.
Mia madre mi consigliò
di andarlo a sentire. Dopo una prima volta vi tornai ogni domenica, ma di
nascosto perché il mondo, a cui mostravo la mia faccia anticlericale ed
il mio ateismo, non lo sapesse. Entravo furtivamente nella chiesa di cui
conoscevo ogni angolo, ogni candelabro, ogni paramento e, mescolato tra la
folla, ascoltavo quel nuovo giovane parroco.
Ero sorpreso da ciò che
diceva, pur non arrivandomi nuovo; se io avessi dovuto parlare della
moltiplicazione dei pani, della resurrezione di Lazzaro, di Maria Maddalena, lo
avrei voluto fare allo stesso modo, ma forse non ne sarei stato capace. Wojtyla
analizzava la figura di Gesù come noi, alle lezioni del professor Wyka,
analizzavamo un personaggio della letteratura; Cristo sulla sua bocca
ridiventava una persona viva.
Analizzava lo stile letterario della Sacra
Scrittura e sottolineava le correlazioni esistenti tra questa e la tradizione.
Il mistero della Salvezza veniva spiegato con l'insieme degli eventi storici che
avevano portato all'affermarsi della Buona Novella. Nelle sue omelie la teologia
e l'antropologia formavano un tutt'uno. Ed ogni cosa diventava chiara. Chiare
erano le parole, chiaro il timbro della voce e lo scandire delle sillabe, chiaro
lo sguardo che egli gettava dal pulpito di ebano e di oro della nostra chiesa di
Kleparz...
Un giorno ci siamo incontrati davanti a casa mia. Faceva freddo,
entrambi camminavamo intirizziti con le mani nelle tasche. Io avevo ventidue
anni, e lui trenta. Sapeva di me, dalle lunghe conversazioni che aveva avuto con
mia madre, molto più di quanto avrei desiderato. Vedendomi
rallentò e quasi si fermò a guardarmi, indugiava... Lo sorpassai
sfiorando il suo braccio, senza una parola né un gesto, perché
sulle mie spalle sedeva il demone dell'orgoglio. Affondando ancora di più
le mani nelle tasche, incrociai il suo sguardo chiaro ed interrogativo; mi
sentii avvampare».
UN ALTRO INCONTRO E LE PRIME POESIE
Anche la scrittrice cattolica Janina Hertz,
gravemente mutilata, ricorda il suo primo incontro con il giovane vicario. In un
primo momento ella rimase quasi spaventata, tanto erano lontane le sue parole
dalle solite frasi banali di compassione; egli esigeva dalla giovane donna lo
sforzo di combattere la sua vera debolezza: il complesso d'inferiorità.
Essendo al corrente degli interessi letterari di lei, non solo le
facilitò il debutto sulla stampa ma spesso si intratteneva con lei per
discutere sugli obblighi dello scrittore nei confronti di Dio e della
società. Obblighi che egli stesso sentiva quando, nella sua camera, chino
su un pezzo di carta, componeva versi in cui si mescolavano i pensieri del
giorno con quelli della notte. Intanto le sue poesie cominciavano ad apparire
sulla stampa. Ma che cosa era per lui, in fondo, la poesia? Sicuramente non era
la trascrizione delle proprie emozioni passeggere, né una parata di belle
frasi che non sarebbero piaciute né a Merton né, prima di lui, a
Kierkegaard, per il quale la poesia si identificava con l'estetismo, e il quale
sosteneva che «il poeta rimane tale fino a che non è un
cristiano». Mentre della poesia di Andrzej Jawien (uno degli pseudonimi di
Karol Wojtyla) si può dire quel che lui stesso aveva detto del mistico
carmelitano S. Giovanni della Croce: «Nella poesia si può giungere a
far balenare l'indicibile, tutto quel che sfugge al linguaggio prosaico e alla
terminologia scientifica; si può infondere coraggio ed esprimere
rimprovero».
La prima poesia di Andrzej Jawien fu pubblicata nel 1950
sul «Tygodnik Powszechny», sotto il titolo «Il canto dello
splendore dell'acqua». In questi versi risuonano le parole che Cristo
pronunciò per noi tutti durante l'incontro con la Samaritana che comincia
a capire la verità sull'«acqua viva» ed ascolta con illimitata
fiducia quanto le dice colui che ella crede il Profeta:
Non siete
soli nel vostro cammino.
Mai, neppure un istante, da voi si stacca il mio
profilo
e in voi diventa verità, sempre diventa verità
e
nella vostra viva onda, uno squarcio insondabile.
Il mio
volto
bruciato dal deserto delle vostre anime, sempre
cancellato dal
soffio di uno strano sopore -
Perché non mi togliete la vostra croce
come io ve
la tolsi? - quando vi bruciava le spalle e s'inclinava
sul vostro ansante respiro.
Le parole sembrano rivolte alla
gente di oggi, alla semplice gente delle strade di Cracovia, a noi
tutti:
No, no - non siete solo voi - e seppure lo foste
la
vostra presenza non solo è durevole, ma rivelatrice.
Purché
si aprano gli occhi in altro modo,
un modo tutto diverso
e
purché non si scordi la visione che allora appagava
lo
sguardo.
Hanna Malewska, redattrice di «Znak» («Il
segno», mensile cattolico polacco), ricorda che proprio in quei tempi il
vicario «dalla tonaca sbiadita» le presentò il testo di un
dramma incentrato sulla figura di frate Alberto, pio elemosiniere e protettore
di tutti i derelitti. Sapientemente la Malewska sottolinea una certa analogia
esistente tra la figura di frate Alberto e lo stesso Wojtyla. Infatti, Alberto
smette la tipica mantella di bohémien e indossa una ruvida tonaca da
frate proprio quando ormai veniva da tutti riconosciuto il suo talento di
pittore: sacrifica la sua esistenza d'artista per entrare in convento. E il
nostro giovane prete non ha forse allo stesso modo sacrificato la propria
vocazione artistica per abbracciare il sacerdozio? Anche lui operò dunque
una scelta più severa per esprimere il proprio animo e solo in rari
momenti componeva poesie d'ispirazione religiosa, o recensiva gli spettacoli
degli amici del Teatro Rapsodico...
Nella parrocchia di San Floriano il
reverendo Wojtyla rimase come vicario dal 1949 al 1951. Nel luglio di quello
stesso anno moriva, onorato ormai dal titolo di cardinale, il Principe
Metropolita Sapieha. Venticinque anni dopo, nel 1976, i fedeli gli dedicheranno
un monumento che si trova davanti alla chiesa dei Francescani; Sapieha, il
grande Pastore della Chiesa cracoviense, vivrà ancora nella preghiera dei
fedeli. Karol Wojtyla, cui Sapieha aveva mostrato sempre la sua benevolenza,
dirà di lui con tenero ossequio: «Il suo ricordo ci riporta a quei
giorni ed a quelle notti che furono tra i più dolorosi per il popolo
polacco, riscattati solo dalle sofferenze, dalla prigione, dalle fucilazioni, da
Auschwitz e dagli altri campi di concentramento». Intanto le spoglie
dell'anziano Metropolita venivano tumulate nella cripta della Cattedrale di
Wawel ai rintocchi della campana «di Sigismondo», che suona unicamente
nelle grandi occasioni.
Wojtyla, vicario della parrocchia ancora per poco,
l'anno successivo otterrà dall'Arcivescovo Eugeniusz Baziak una licenza
biennale per prepararsi all'esame di abilitazione.
LO STUDIO SU SCHELER
Il giovane prete prese allora alloggio presso il
reverendo professor Rózycki, in via Kanonicza 19, dirimpetto a Wawel, ed
iniziò il faticoso lavoro di ricerca nelle biblioteche.
Nell'autunno
Wojtyla supera l'esame con una tesi intitolata «Valutazioni sulla
possibilità di costruire l'etica cristiana sulle basi del sistema di Max
Scheler» (edito in Italia: ed. Logos, 1980). Promotore della tesi fu il
rev. prof. Wicher, acuto pensatore di origine contadina e professore di teologia
morale all'Università Jagellonica, il quale spesso rivolse la sua
attenzione ai problemi contemporanei quali l'aborto, la sessualità,
l'alcoolismo, l'etica dello sport, andando quindi oltre la sfera delle questioni
puramente teoriche. Lo scienziato non soffocava in lui il pastore. Accanto a lui
vi erano i due relatori della tesi: il prof. Adam Usowicz e il prof. Stefan
Swiezawski, noto filosofo che si vedrà poi invitato come osservatore al
Concilio Vaticano II e diverrà grande amico di Wojtyla. Non
passerà molto tempo e i due filosofi si troveranno fianco a fianco ad
insegnare nella stessa università, e poi a partecipare insieme a simposi
e congressi scientifici, e infine a fare lunghe «conversazioni
peripatetiche» sui sentieri più scoscesi delle montagne.
Lo
studio sul sistema di Max Scheler, un eminente filosofo tedesco morto nel 1928,
ha influito non poco sull'orientamento scientifico del sacerdote Wojtyla, che
incominciò ad occuparsi dell'etica alla luce della più importante
corrente filosofica contemporanea, la fenomenologia.
A Cracovia il futuro
papa aveva avuto l'occasione d'incontrarsi con un altro illustre rappresentante
di questa corrente, Roman Ingarden, professore nell'Università
Jagellonica fin dal 1945, che si era reso famoso nel mondo per i suoi scritti
filosofici ed etici.
La fenomenologia, trovando nell'intuizione uno
strumento sostanziale per la cognizione dei fenomeni della vita esteriore, e
puntando sull'analisi della loro essenza e dei legami che li uniscono alla
«coscienza pura», si opponeva alle tendenze filosofiche miranti al
ridimensionamento dei valori religiosi. Scheler infatti introdusse il metodo
fenomenologico anche nel campo religioso ed etico: due fenomeni che lo
interessavano particolarmente, in special modo quello della religiosità,
che considerava elemento fondamentale della coscienza umana. Per questi studi si
avvalse del prezioso apporto di filosofi cattolici.
Nella sua tesi intorno
al sistema etico di Max Scheler (pubblicata in Polonia nel 1959) il sacerdote
Wojtyla muove molte obiezioni ed esprime qualche riserva, pur apprezzandone, nel
complesso, l'impostazione generale: constata, prima di tutto, che il filosofo
tedesco non vede nel Dio-Assoluto la «persona exemplaris» e che
attenua il ruolo della coscienza nella vita morale della persona umana non
prendendo in considerazione la sua «relatio causalis» verso i valori
etici.
Ma, al di là di queste considerazioni, la tesi dimostra che
un certo legame positivo con la fenomenologia si è instaurato, il che
influenzerà in qualche modo le successive meditazioni e ricerche di Karol
Wojtyla nel campo dell'etica.
Scriverà Wojtyla: «Agli studi di
Max Scheler sul sistema etico dobbiamo la crescente attenzione sul ruolo,
innegabilmente positivo, svolto dall'approccio fenomenologico ai problemi
dell'etica. Nello stesso tempo però questi studi ci convincono che il
pensatore cristiano, specie se teologo, pur avvalendosi dell'esperimento
fenomenologico non può mai essere fenomenologo, perché la
fenomenologia, rigorosamente applicata, lo indurrebbe a credere che il valore
etico si verifichi 'occasionalmente' nella vita 'vissuta' della persona. Il
compito del teologo-etico, invece, sarà sempre quello di analizzare il
valore etico dell'agire umano alla luce di princìpi
obbiettivi».
La vasta dissertazione sul sistema di Scheler appartiene
senz'altro alle opere pionieristiche in questo campo; a parte ciò,
traspare in essa, come del resto in tutte le opere poetiche e scientifiche di
Wojtyla, la mentalità del «pastore».
TUTTI LO VOGLIONO
Dopo aver ottenuto il titolo di dottore, il sac.
Wojtyla insegnerà, nel 1953, teologia morale ed etica nel Seminario
Teologico, e per due semestri terrà anche le lezioni di etica sociale
presso la facoltà di teologia dell'Università Jagellonica. Era
ormai conosciuto come eccellente studioso e predicatore e come un sacerdote
capace di mantenere ottimi rapporti, specie con i giovani. Mons. Ferdynand
Machay, morto nel 1967, arciprete della chiesa di Maria Madre di Dio, parlava di
lui con grande stima ed affetto. Qualcuno ricorda questa frase scherzosa detta
da Machay: «... Si immagini la scena (...) Sto nella mia sacrestia;
qualcuno bussa, socchiude la porta e domanda a voce bassa: 'C'è forse il
reverendo Wojtyla?'. Rispondo che non c'è. Dopo un po' bussa un altro
tizio e poi ancora un terzo, e un quarto: tutti vogliono Wojtyla! Ma Dio buono!
- esclamo all'ennesima richiesta - sempre Wojtyla e Wojtyla! Come se io non ci
fossi, qui! Io, il Parroco!».
Ma si trattava comunque di finti
lamenti: in realtà Mons. Machay apprezzava il giovane prete tanto da
parlarne al professor Swiezawski che, conoscendo ormai Wojtyla, lo introdusse
nell'università dove lui stesso insegnava. Infatti nel 1954 Wojtyla
veniva invitato dal decano della facoltà di filosofia, prof. Jerzy
Kalinowski, a Lublino. Ebbe così la possibilità di tenere lezioni
d'etica, che dopo due anni divennero un corso stabile, quando Wojtyla venne
nominato titolare della Cattedra di Etica all'Università Cattolica di
Lublino; questo ebbe luogo quando il precedente titolare della cattedra, il
domenicano Feliks Bednarski, partì, nel 1956, per Roma, per insegnare
all'Angelicum.
DOCENTE UNIVERSITARIO
Il 31 dicembre 1957 Wojtyla ottiene il titolo di
docente. Da quel momento, ogni due settimane il dottore Wojtyla prendeva il
treno di notte per recarsi a Lublino. Viaggiava spesso in compagnia di altri due
professori, il sac. prof. Franciszek Takarz dell'università cattolica, ed
il prof. Jerzy Korohoda dell'università Maria Curie-Sklodowska, sempre a
Lublino. Insegnò all'università fin quasi alla sua elezione del 16
ottobre 1978.
Naturalmente con gli anni erano aumentati gli incarichi e i
doveri legati a sempre nuove nomine ecclesiali, tanto che non di rado era
costretto a trasferire le proprie lezioni a Cracovia, e ad invitare colà
i collaboratori e gli allievi.
Di questa lunga, quasi ventennale esperienza
all'università, sono rimasti molti ricordi. Il rettore, per esempio, il
domenicano padre Mieczyslaw Albert Krapiec, eminente filosofo tomista,
così ha descritto il lavoro del pedagogo Wojtyla: «Il sac. prof.
Wojtyla sin dall'inizio introduceva l'uomo, come soggetto della morale, al
centro del problema. Per lui la filosofia si focalizzava soprattutto
sull'esistenza individuale come momento più alto della realtà.
Sottolineava l'importanza per la persona umana di esperimentare se stessa e gli
altri negli incontri di gruppo, e soprattutto nell'intimo contatto della
confessione; perché è appunto in questa occasione che l'uomo si
scopre totalmente; svela le proprie esperienze morali; le proprie intenzioni; le
circostanze che hanno accompagnato l'atto; la stessa intenzione dell'atto; la
chiarificazione del movente che ha determinato l'azione immorale. Il dramma
della persona umana che si palesa durante il dialogo della confessione era per
il prof. Wojtyla un'esperienza sempre più ricca, intorno all'ente morale
che doveva essere spiegato anche dal punto di vista filosofico».
Prima
di tutto, quindi, il problema religioso, poi quello della persona: l'essere
umano, una struttura etica mai approfondita sufficientemente, ma affascinante;
quell'ente morale che, prima di definirlo con nozioni filosofiche, è
necessario capire attraverso la propria esperienza individuale. Questo era il
fondamento del pensiero e della pedagogia del professor Wojtyla, futuro
Papa.
Quando arrivò all'università di Lublino per tenere le
sue lezioni, sembrava uno dei tanti giovani studenti, ma col tempo
quest'insegnante dalla tonaca sbiadita e dalle scarpe malconce riuscì a
far conoscere la propria personalità non molto professorale, ma
profondamente affascinante, specie per quella equilibrata fusione di
religiosità ed erudizione, per la inconsueta semplicità, per la
riflessività e lo slancio, per il garbo e la risolutezza.
Le lezioni
del prof. Wojtyla, pur svolgendosi nell'aula più ampia
dell'università, erano affollatissime: gli studenti sedevano sui banchi,
per terra, contro le pareti, sui davanzali delle finestre. «Lo zio
Karol» aveva sempre una folla di uditori. «Lo zio Karol»... Io
chiamavano così, con questo simpatico soprannome che sottolineava,
cogliendo nel segno, le virtù bonarie del nostro professore, il quale,
oltre a prestare buoni consigli e sorrisi incoraggianti, spesso
«imprestava» soldi con «rimborso a lungo termine»,
nell'aldilà!
Gli studenti sapevano dove trovarlo durante
l'intervallo: immancabilmente egli era assorto in preghiera nella cappelletta
del convitto o nella chiesa. Il breviario faceva costantemente da sostegno alla
catasta di libri di cui si serviva questo studioso; quel libricino fungeva da
pilastro alla sua gran mole di scienza.
Ma lo si poteva trovare pure alla
mensa studentesca o al capezzale di qualche malato.
Questo sacerdote
evitava di assumere qualsiasi atteggiamento che aggiungesse autorità alla
sua autorevolezza e sottolineava spesso: «Colui che si occupa dell'etica
deve testimoniare con la propria persona questo bene di cui viene a conoscenza e
che vuole insegnare agli altri».
Wojtyla all'Università Cattolica di Lublino col rettore Krapiec
UN TIPO UNICO
L'università cattolica di Lublino, pur non
essendo antica (nel 1978 ha celebrato i suoi sessant'anni) è ormai
universalmente conosciuta come centro del pensiero tomistico, che ospita spesso
studiosi di tutto il mondo.
Ma la sua vita non cessa con la chiusura delle
aule; essa continua in incontri privati. Studenti e sacerdoti continuano a
vedersi sul campo da gioco o durante le serate piene di canti e di scherzi, la
più attesa delle quali era la festa annuale detta «eutrapelia»,
ove la serena allegria prende l'abbrivo con l'inno dei filosofi:
...
a
a
a
eutrapelia,
a a a eutrapelia,
o beata
tempora
ibimus in nemora...
(... o che tempi beati, andremo nei boschi
...)
Una volta, così scherzando, gli studenti inventarono un
plebiscito: ad ogni professore venivano assegnati dei voti, usando però
unicamente un doppio criterio: saggio non saggio e santo - non santo. Come
ricorda il rev. dott. Tadeusz Styczen, il più vicino collaboratore del
futuro papa alla cattedra di etica, si poteva disporre così di quattro
possibilità, quattro «classi» di combinazioni: quella dei
saggi-non santi; dei non-saggi-santi; dei non-saggi-non-santi ed infine quella
dei saggi-santi. Fortunatamente però gli studenti, che di solito sanno
essere spietati anche se per se stessi pretendono un trattamento «con i
guanti», quella volta non condannarono «all'inferno» nessuno
mediante la terza categoria. Però la quarta classe andò quasi
deserta, poiché, un solo professore ne fu degno: Karol
Wojtyla.
Dunque, fin d'allora, agli occhi degli studenti egli faceva classe
a se stante. Vox populi?...
IN SILENZIO SUI MONTI
Il «saggio-santo», anche se disponeva di
poco tempo libero non tralasciava le sue distrazioni giovanili: lo sport e le
escursioni, spesso in compagnia dei suoi collaboratori di Lublino. Ma lo scopo
di queste sue evasioni non era semplicemente lo sport e il riposo! La natura
offriva meravigliosi luoghi appartati dove, seduti su di un ceppo dorato di
resina, o sulla soglia di un vecchio ovile, o sulle pietre scaldate dal sole, o
ancora in mezzo a un pascolo ove silenzio e immobilità regnavano, essi
potevano pregare insieme, discorrere e dissertare di problemi etici, oppure
semplicemente tacere. Mons. Kazimierz Majdanski ricorda che una volta, mentre
col passo cadenzato s'inerpicavano sui Tatra, fu lanciata una proposta:
«Ora sarebbe meglio stare in silenzio per mezz'ora; questa era l'abitudine
di San Giovanni della Croce quando camminava con gli
amici».
«Durante le escursioni Wojtyla non sopportava di
'gingillarsi', ricorda uno studente che negli anni cinquanta lo accompagnava in
canoa. Il percorso, una volta stabilito, doveva essere rispettato. Lui era
considerato il capogruppo spirituale, mentre agli altri spettavano le decisioni
organizzative e tecniche. Il gruppo era composto da un ingegnere (il 'commodoro'
della spedizione), da un'infermiera, dagli operai e, per la maggior parte, da
studenti. La mattina presto Wojtyla celebrava la S. Messa, dopo era uno di noi.
La sera, accanto al falò, cantava. Era l'animatore del canto
perché conosceva un gran numero di canzoni. Un particolare mi è
rimasto nella memoria: la riservatezza dei suoi discorsi; le sue omelie erano
brevi, concise; pochi concetti, ma sempre profondi e toccanti. Sapeva ascoltare
in modo meraviglioso. Con brevi monosillabi incoraggiava a parlare. Senza
parere, induceva a portare il discorso verso una direzione ed aiutava il suo
interlocutore a giungere a giuste conclusioni.
Ero allora troppo giovane
per saper apprezzare sino in fondo queste ore di intensivo remigare, durante le
quali lui recitava pure il breviario».
Karol Wojtyla nel 1958 pochi giorni prima della sua nomina a vescovo
L'INFULA
Proprio durante una di queste gite ricevette un
inaspettato telegramma: lo pregavano di ritornare dalle vacanze il più
presto possibile... perché era stato nominato vescovo.
Era l'inizio
dell'estate 1958. Wojtyla all'arrivo del telegramma si trovava a Santa Lipka,
una campagna della regione di Warmia, situata sulla riva sinistra del lago
omonimo, famosa per la sua bella chiesa barocca dove l'immagine e la statuetta
della Madonna miracolosa attirano un gran numero di pellegrini. In quel
frangente il reverendo professor Wojtyla si trovava a discutere del libro (poi
pubblicato con il titolo «Amore e responsabilità») cui stava
lavorando. Il telegramma sorprese tutti; un'enorme impressione si mescolò
al rammarico. Gli studenti subito capirono che l'infula vescovile avrebbe non
solo strappato il loro Maestro da una vacanza appena incominciata, ma li avrebbe
anche privati per sempre dall'amato professore, che forse mai più sarebbe
tornato alla cattedra di Lublino.
Sapevano anche, però, che, come S.
Agostino disse: «Roma locuta, causa finita».
Portarono allora
Wojtyla sulle spalle fino all'autobus, e lui, emozionato e imbarazzato per i
festeggiamenti che gli venivan fatti lungo la strada di campagna, promise di
tornare da loro, di tornare alle loro canoe.
Non gli credettero.
Ma
lui, dopo qualche giorno, tornò.