PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - VOCAZIONE E SACERDOZIO

LA GRAZIA DELLA VOCAZIONE

In quell'anno, infatti, Karol, pur non interrompendo il lavoro alla «Solvay», e pur continuando ad appartenere al gruppo teatrale, entrò nel Seminario clandestino metropolitano teologico di Cracovia. Il mistero della vocazione «alla grande preghiera di tutte le cose: degli uomini e del mondo» come dirà durante quegli esercizi spirituali in Vaticano il futuro Papa - è sempre inesplicabile. E tanto più ci resta impenetrabile se consideriamo il caso di questo giovane brillante, studente di filologia, appassionato di letteratura, di arte e di sport. Certamente i fattori determinanti di questa sua grande decisione furono molteplici, primo fra tutti la profonda religiosità che talvolta toccava la vetta del rapimento mistico, come accadde durante la liturgia della Parasheve nella Cattedrale. E poi - l'amicizia con Giovanni Tyranowski di cui subì il fascino del fervido apostolato. E poi - la dura lezione della guerra, e poi ancora il dolore inflittogli dalla morte del padre.
Ma tutto ciò che aveva fatto fin'ora non era forse un predestinato incamminarsi sulla via del servizio di Dio?
Persino la sua iscrizione alla facoltà di filologia non apparve forse casuale ed inaspettata agli occhi stessi dei suoi compagni di liceo, che pure non ignoravano la profonda cultura umanistica di Lolek?
Sacerdozio, allora.
Una scelta che addolorò Kotlarczyk. Egli stimava troppo il talento scenico di Karol Wojtyla per non meravigliarsi, per non cercare di dissuadere l'amico da quella decisione. «Il compianto Kotlarczyk sosteneva che la mia vocazione fosse quella della parola e del teatro - dirà il Santo Padre durante il suo viaggio in Polonia, a Skalka - Gesù invece sosteneva che fosse il sacerdozio, e ci siamo accordati su questo punto».
Non a caso questo Papa parlerà spesso dell'importanza della famiglia, della bellezza del suo amore e della sua missione divina; egli che la famiglia l'ha persa troppo presto, ma che l'ha ritrovata in quell'anno della «grande decisione» in seno alla Chiesa, santificato dalla grazia della vocazione alla vigna del Signore, e confortato dall'amore e dalla saggezza dei suoi maestri.
Immaginate il sorriso di compiacimento del Principe Metropolita quando riconobbe nel novizio il ragazzo che una volta, a Wadowice, gli aveva letto il discorso di commiato!
Da quel momento la generosa benevolenza dell'arcivescovo Sapieha accompagnerà Karol Wojtyla come una stella nel firmamento della notte nazista, come fu definito quel periodo storico in una iscrizione sul monumento dedicato a Sapieha ed eretto davanti al palazzo arcivescovile di Cracovia.

IL CHIERICO

Fino all'agosto 1944 il chierico Wojtyla frequenta la facoltà di teologia presso l'Università Jagellonica (che seguitava ad essere clandestina) pur continuando a lavorare alla «Solvay».
Poi ci fu l'episodio dell'incidente stradale: sulla via Konopnicka Karol viene investito da un camion tedesco e rimane tutta la notte svenuto in un fossato, fino a che, la mattina dopo, non viene scorto da una donna e trasportato in ospedale, dove a stento riesce a riprendere conoscenza. È in questo periodo che Karol lascia il lavoro e la casa di via Tyniecka per trasferirsi nel palazzo arcivescovile in via Franciszkanska (il nome viene dalla vicina chiesa dei frati Francescani), secondo la decisione del Principe Metropolita. L'Arcivescovo infatti ha deciso di raccogliere tutti i seminaristi nel suo palazzo e di dar loro la tonaca, perché nella tragica notte del 6 agosto la Gestapo aveva effettuato una enorme retata in città (in quella notte furono arrestati quasi settemila uomini!), per prevenire eventuali reazioni a catena all'insurrezione di Varsavia. Si dice che l'ultimo ad arrivare fosse Karol Wojtyla: senza giacca, con i pantaloni di panno, gli zoccoli ai piedi e due quaderni sotto il braccio.
Le assenze dell'operaio Wojtyla naturalmente attirarono l'attenzione dell'Arbeitsamt (l'ufficio del lavoro) che incomincia a cercarlo dappertutto, minacciando gli abitanti di via Tyniecka ed i suoi stessi compagni di lavoro. Le minacce potevano diventare una terribile realtà sia per il fuggiasco che per i suoi amici. Allora l'Arcivescovo Sapieha, l'autorità spirituale della Polonia martoriata, intraprende i suoi passi presso il direttore della «Solvay» per cancellare il nome del chierico dall'elenco degli operai. E fu così che il famigerato Arbeitsamt smise di perseguitare Wojtyla.
Il fatto che il futuro Papa abbia dovuto lavorare forzatamente come operaio, ed abbia dovuto nascondersi per studiare la teologia e per sfuggire alla polizia che lo braccava, ci fa rapportare per analogia i tempi moderni a quelli antichi delle persecuzioni ai primi cristiani.
Cracovia viene liberata il 18 gennaio 1945. Malgrado fosse stata destinata alla rovina, la città fu salva e furono salvi i suoi secolari monumenti già minati dai Tedeschi.
Tutti i cittadini si misero all'opera in quella città che sembrava ancora una fortezza. Anche i seminaristi uscirono finalmente fuori dal loro nascondiglio dove, fino ad allora, avevano studiato, dormito e preso una boccata d'aria nell'angusto cortiletto.
Anche Wojtyla prese parte ai lavori di ripristino e si rese attivamente utile nell'Unione degli Studenti, chiamata «Bratniak» («L'aiuto fraterno tra studenti»).
Dal novembre 1945 all'agosto tenne lezione di dogmatica nella facoltà di teologia all'Università. Questo posto di assistente fu senz'altro un riconoscimento del suo valore.
Suoi colleghi di assistentato furono anche il rev. Józef Rozwadowski, oggi vescovo di Lódz, e più tardi altri due seminaristi: il rev. Juliusz Groblicki ed il rev. Stanislaw Smolenski, oggi vescovi di Cracovia.
In quel periodo debuttò pure come poeta in un mensile edito dai Padri Carmelitani Scalzi di Cracovia, nel quale pubblicò, come anonimo, il poema «Canto sul Dio nascosto» suddiviso in tre parti: «Le rive piene di silenzio», «Perché Tu sei il silenzio stesso», «Il canto sul silenzio inesauribile» («Glos Karmelu», nr. 1-3, 1946 e nr. 3 e 5, ).
Di che cosa scriveva il giovane autore in abito talare in quel suo poema accompagnato dalla illustrazione che riproduceva la «Barca di S. Pietro» di Giotto?
Egli ci conduce nel mondo della contemplazione religiosa e sembra voler rendere una confessione prima di intraprendere il servizio di Dio. La simbologia del mare, della luce, delle foglie tremolanti rappresenta i moti dell'anima imbevuta del «grande silenzio» del Signore, di tutti i tesori il più prezioso.
Leggiamo qualche frammento di questo poema poco conosciuto e non sottoscritto, neanche con uno pseudonimo:

Lentamente tolgo luce alle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e piano in tutto immetto il nulla
che attende l'alba della creazione.

Per creare uno spazio
alle Tue mani tese
e avvicinare l'eterno
in cui Tu possa alitare...

Inappagato dal giorno della creazione
io bramo un nulla crescente
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo amore.

Cosa significa se scorgo tante cose quando non vedo niente
quando ormai l'ultimo uccello sparisce oltre l'orizzonte.
quando un'onda lo nasconde nel suo cristallo -
io scendo ancora più in basso
immergendomi, insieme all'uccello, nel fotto fresco, cristallino.

E più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere,
e l'acqua obliqua sotto il sole dà un riflesso tanto più vicino
quanto più lontana è l'ombra che la divide dal sole,
quanto più lontana è l'ombra che dal sole divide la mia vita.

Nell'oscurità dunque vi è tanta luce
quanta vita vi è nella rosa sbocciata,
quanta presenza vi è di Dio che sale
sulle rive dell'anima.

Con Te portami ad Efrem, Maestro, e lascia ch'io rimanga con Te
là dove rive lontane discendono su ali di uccelli
come il verde, come onda gonfia, non sfiorata né
intorbidita dal remo,
come un grande cerchio sull'acqua, non turbato da
un'ombra di sgomento

Ti ringrazio perché hai portato la dimora dell'anima
lontano da ogni fragore
e come amico vi soggiorni, circondato dalla tua
sorprendente povertà
O immenso! Occupi solo una minuscola cella
ed ami luoghi vuoti e solitari.

Perché Tu sei il silenzio stesso, questo grande Tacere,
da ogni suono di voci fammi libero,
ed entra in me Tu solo, col tuo fremente essere
e col vento che trema fra le mature spighe.

Il silenzio al posto delle parole, dello strepito, della voce: l'intimità al posto dell'esuberanza del mondo, questi sono senz'altro i segni di questo poema, «Lentamente tolgo luce alle parole...»: suona quasi come un addio alla letteratura ed all'arte; ma spiega anche uno stato d'animo più generale: l'autore non aveva alcuna intenzione di rincorrere l'alloro dei poeti; evitava invece tutto ciò che poteva distoglierlo dalla sua vera vocazione: il sacerdozio.
In uno dei suoi schizzi letterari Tadeusz Kudlinski, famoso critico teatrale, ricorda un fatto molto significativo: «Raccoglievo in quel tempo - scrive Kudlinski - i testi per un'opera collettiva su Cracovia, sulle sue vicende e suoi personaggi, fra i quali la curiosa figura di frate Alberto. A chi dovevo rivolgermi se non a Karol? Gli avanzai tale proposta durante la visita nel seminario. Karol ci pensò un momento, poi ringraziò cortesemente dell'invito, ma rifiutò di scrivere quell'articolo, giustificando il diniego con una confessione: si era ripromesso di non scrivere fino a quando non avesse finito gli studi e ricevuto gli ordini sacerdotali. L'intenzione di allontanare le tentazioni letterarie era ferma e bisognava rispettarla.
Credo che questo sia un particolare molto indicativo del suo carattere, una testimonianza della vera vocazione».

LA «VOCE DEL CARMELO»

Non per caso «Il canto sul Dio nascosto» fu pubblicato sulla «Voce del Carmelo», un mensile «dedicato ai profondi problemi spirituali», come spiegava il sottotitolo.
Lo distingueva il tono tipico dei Carmelitani. Il Dio nascosto; l'anima tra la luce e le tenebre che cerca di scuotersi di dosso tutti i valori temporali per cercare il suo Sposo, il Signore; questi sono gli elementi immancabili del misticismo dei grandi Carmelitani, come, ad esempio, S. Giovanni della Croce. Qui è necessario tener presente che in quel periodo il chierico Wojtyla desiderava appunto farsi frate carmelitano e voleva trascorrere il noviziato a Czerna, un affascinante luogo vicino a Cracovia, dove si trova il loro convento.
Le mura di questo convento, che si adagia maestosamente sulle falde di un colle boscoso, conservano il ricordo di padre Raffaele Kalinowski che lì è sepolto. La figura di questo monaco, amico di frate Alberto, ed al pari di questi, patriota combattente durante l'insurrezione del , doveva essere probabilmente vicina al cuore del futuro papa fin dai tempi della sua giovinezza. Padre Raffaele dimorava un tempo a Wadowice, dove fondò un convento dei Carmelitani. Ingegnere di professione, era dotato di grande nobiltà d'animo e di profondo amor patrio. Fu proprio il suo patriottismo a condurlo alla rivolta contro lo Zar e a rendergli drammatica la vita.
Ma il sogno di Karol Wojtyla di vestire l'abito carmelitano non si sarebbe dovuto avverare perché il Principe Metropolita, ritenendo che nell'Arcidiocesi fossero più necessari, dopo le perdite della guerra, i preti non conventuali, non autorizzò il suo ingresso nel convento. Si disse più tardi che il giovane sacerdote avesse ripetuto il tentativo di diventare frate carmelitano, entrando nel convento di via Rakowicka, ma questa notizia non è mai stata confermata e non ha fondamento.

GLI ORDINI SACERDOTALI

Karol Wojtyla ricevette l'ordinazione sacerdotale il primo novembre 1946 assieme ad altri due chierici del tempo di guerra: Leonard Haredzinski e Marian Kolasa.
L'ordine sacerdotale fu preceduto dagli ordini minori e dali altri maggiori con questo calendario: il 9 novembre Karol Wojtyla ricevette la tonsura, il 17 dicembre dello stesso anno gli ordini minori dell'ostiariato e dell'elettorato; il 21 dicembre 1945 gli ordini minori dell'esorcistato e dell'accolitato; il 13 ottobre 1946 l'ordine del suddiaconato; e il 20 ottobre quello del diaconato. Infine fu ordinato sacerdote dal Principe Metropolita nella sua cappella privata: tale fretta fu determinata dalla opportunità di incominciare i nuovi studi all'estero.
Il giorno dopo l'ordinazione, festa dei morti, la Cripta di S. Leonardo a Wawel dove sono sepolti il re Jan Sobieski e sua moglie Marysienka, il re Michal Korybut Wisniowiecki, il principe Józef Poniatowski e l'eroe nazionale Tadeusz Kosciuszko fu testimone di una commovente messa. Tra le sue mura romaniche, come in un eremo buio e silenzioso, tra i sarcofaghi di pietra sui quali timidamente brillavano le candele qua e là fissate nelle corone ornate di nastri bianchi e rossi, il giovane Wojtyla celebrò tre messe: le prime della sua vita.
La prima la celebrò in suffragio delle anime della madre, del padre, della sorella e del fratello; la seconda, in conformità alla prassi ecclesiastica, per tutti i morti; e la terza, secondo l'intenzione indicata ai sacerdoti dal Santo Padre.
Officiando le messe in quel modo Wojtyla usò del privilegio di Benedetto XV, concesso durante la prima guerra mondiale, che permetteva, nel rispetto di determinate condizioni, di celebrare un triplice sacrificio nel giorno dei defunti. Manuductore (cioè colui che conduce per mano) del giovane sacerdote fu il reverendo Figlewicz.
Fu lui a ricordarci che tutte e tre le messe vennero celebrate dinanzi all'altare della cripta di S. Leonardo, ciò in contrasto con la versione riportata nei suoi scritti dal reverendo Mieczyslaw Malinski secondo la quale la seconda e la terza messa di Karol Wojtyla avrebbero avuto luogo nella confessione di S. Stanislao. Nella cripta non c'erano molte persone, ma non mancavano gli attori del teatro Rapsodico e gli amici di Wadowice e della «Solvay».
Qualche giorno dopo aver celebrato le messe a Wawel e nella chiesa di Debniki, il neosacerdote si trovò davanti all'altare di Wadowice per la Messa del noviziato. Salutato dal pulpito dal suo vecchio catechista, reverendo Zacher, pregò per la prima volta nella comunità della parrocchia familiare. Pregò nella città dove era cresciuto, amato e stimato, e dove avrebbe potuto sempre bussare a qualsiasi porta: era tra i suoi. Eppure in quel giorno dovette provare un doloroso rimpianto nel rivedere la sua casetta di via Koscielna.
Karol Wojtyla il giorno della sua ordinazione

LA VILLA «SOTTO I TIGLI»

Non aveva più casa.
Non sapeva dove organizzare il piccolo ricevimento per festeggiare il noviziato e non poteva neppure contare sull'ospitalità della madrina di battesimo, che non avrebbe mai osato ricevere degli ospiti in vesti sacerdotali nella sua troppo modesta casa alla quale, oltretutto, si accedeva tramite il cortile. Fortunatamente arrivarono in suo aiuto, e non per la prima volta, la signora Irena Szkocka e sua figlia Zofia Pozniakowa. Con la famiglia Szkocki, Wojtyla manteneva rapporti di vera amicizia fin da prima della guerra, quando gli Szkocki abitavano nella villa «Sotto i tigli» sui pendii delle rive della Vistola, in via Principe Giuseppe.
La villa e il nome stesso della strada ci fanno tornare con la memoria all'epoca del Principato di Varsavia e agli ultimi capitoli gloriosi dell'epopea napoleonica. Nel giardino che recinge la villa, ai piedi di tre tigli antichi, si trova una pietra con questa iscrizione:

Quando tutte le tristezze si riversavano sull'anima mia,
Quando cercavo di dar sfogo al dolore,
Qui venivo a meditare, in questo luogo solitario.
Con me c'erano solo la speranza i ricordi.
Mi consolavano l'innocenza del mio cuore,
Il cielo calmo, e l'ospitalità sincera degli abitanti.

Sotto questa poesia c'è la firma di Zofia Czartoryska Zamoyska, e la data: 8 maggio 1813. L'autrice dei versi era sorella del principe Adam Czartoryski e moglie di uno degli uomini politici più attivi di quel tempo, collaboratore dello stesso principe Józef Poniatowski, il quale proprio ai primi di maggio del 1813 partì con i suoi soldati da Cracovia nella direzione di Lipsia: ma la sua tragica morte a Elstera fece naufragare le speranze irredentiste dei Polacchi, allontanando ancor più il giorno della liberazione.
Forse erano questi i tristi pensieri che opprimevano l'animo della principessa quando passeggiava sotto i tigli.
Quella casa fu poi frequentata da giovani artisti e letterati, pittori e musicisti di belle speranze che colà convenivano per presentare le loro prime opere; fra costoro vi era pure Karol Wojtyla. Ma durante la guerra la casa fu requisita dai Tedeschi ed i proprietari ne furono scacciati. Tutta la compagnia allora si trasferì in via Szwedzka 12; là il giovane sacerdote organizzò appunto la sua prima festa in occasione del noviziato.

IL PRIMO VIAGGIO ALL'ESTERO

Il 15 novembre 1946 due giovani sacerdoti partono alla volta di Roma: Karol Wojtyla e Stanislaw Starowieyski, di due anni più giovane di lui.
Durante il loro soggiorno nella «città eterna», essi continueranno i loro studi di teologia e di filosofia, secondo il desiderio espresso dal Principe Metropolita. Sarà questa, oltre tutto, una scuola di cultura europea; infatti i due sacerdoti abiteranno, anziché presso preti polacchi, nel collegio belga (in via del Quirinale), dove avranno occasione di perfezionare la loro conoscenza del francese.
Negli anni 1946-48 Wojtyla studiò nel famoso istituto domenicano di filosofia, l'Angelicum, che insieme con Lovanio e Friburgo era il più importante centro del pensiero tomistico.
In quel periodo il Dottore d'Aquino vedeva rifiorire la sua popolarità; infatti il suo sistema filosofico, così chiaro, preciso e realistico, piaceva persino agli intellettuali che pur non accettavano la sua teologia. Sotto la penna dei suoi sostenitori i testi di San Tommaso venivano ad acquistare un significato particolarmente moderno, specie in relazione ai problemi sociali e culturali che scuotevano l'Europa di allora. Il suo sistema filosofico, introducendo la logica nella metafisica, conferiva a questa il suo antico splendore, riuscendo altresì ad affascinare per le sue concezioni antropologiche e per la sua filosofia morale. Con l'Assoluto dedotto dalle operazioni intellettuali, con i concetti degli enti finemente definiti, con la legge eterna e con l'elogio della ragione, questa filosofia si accordava perfettamente con l'idea di Dio, con la concezione della Creazione, con l'insegnamento evangelico, il principio del primato dell'uomo nel mondo circostante, ed infine, con l'istituzione della Chiesa come portavoce indispensabile di queste verità.
Naturalmente il giovane sacerdote polacco già conosceva tanto il pensiero dell'Aquinate quanto i suoi esegeti del ventesimo secolo, ma, trovandosi proprio nel centro del movimento neo-tomistico di cui l'Angelicum era la cattedra (l'istituto venne elevato al rango di Università pontificia di S. Tommaso d'Aquino nel 1963, da Papa Giovanni XXIII), ed avendo occasione di conoscere personalmente padre Reginaldo Garrigou-Lagrange, il protagonista più illustre di quel movimento, ne divenne entusiasta.
In una lettera indirizzata alla «nonna», Irena Szkocka, Karol Wojtyla così si esprimeva: «... Che cosa allora stiamo compiendo? Circa gli studi su S. Tommaso ci sarebbe da parlare a lungo. Il suo sistema filosofico è incredibilmente bello ed affascinante, e per di più riesce ad essere convincente grazie alla sua semplicità. Dunque la profondità di pensiero non necessita di troppe parole per esprimersi. E poi un'altra cosa mi sta a cuore: passeggiare per Roma, inoltrarmi nelle viuzze antiche. Ma di ciò non posso raccontare in poche parole: troppi sono gli aspetti diversi e le sfaccettature. L'uomo scopre ad ogni piè sospinto un dettaglio nuovo e con esso ritrova sempre più profondamente se stesso. Mi ci vorrà del tempo per catalogare tutte queste impressioni in un sistema ordinato... Deo gratias».
Solo in apparenza queste annotazioni hanno l'aria di essere sbrigative e non del tutto necessarie; in realtà questo frammento di lettera ci dà la misura di quanto Karol Wojtyla fosse rimasto affascinato dal tomismo, e ci spiega perché questa sua predilezione filosofica non lo abbandonerà mai, neanche quando egli si accosterà ad una filosofia diversa e più moderna quale la fenomenologia.
E inoltre, proprio tramite questa lettera, noi possiamo immaginare un Wojtyla che ama girovagare per le viuzze della capitale della cristianità e che, da buon intellettuale, sente la necessità di riordinare la gran mole di impressioni, le più disparate, che gli affollano la mente.
Karol Wojtyla (il primo a sinistra) ospite a Roma del collegio belga

L'INCONTRO CON L'OCCIDENTE

Nell'estate 1947, dopo la licenza in teologia, il reverendo Wojtyla parte per la Francia, il Belgio e l'Olanda, assecondando anche questa volta i desideri dell'Arcivescovo Sapieha, che intendeva far conoscere al futuro Pastore della Chiesa i metodi pastorali adottati in tutta Europa.
Parigi, Marsiglia, la grotta miracolosa di Lourdes, Bruxelles, le città della Francia settentrionale: ecco le tappe del viaggio. In questi quattro mesi registrò impressioni del tutto diverse da quelle provate a Roma e in Italia, dove il temperamento meridionale esprime un tipo di cattolicesimo vivace e colorito che è retaggio di antiche tradizioni cristiane. Il Nord Europa, invece, e la Francia in particolare, lo urtava con la sua freddezza, con il suo scetticismo che quasi sembrava non accorgersi di Dio. È vero che, dopo la tremenda esperienza della guerra, l'Occidente si stava dimenando tra angosciosi interrogativi esistenziali, ma le risposte preferiva cercarle piuttosto altrove che non nella religione. Infatti lo scettico, quel superficiale libertino di una volta, amava ora coltivare le formule dell'esistenzialismo sartriano, e non perdeva occasione per farle proprie ed esibirle così come sfoggiava il maglione nero, divisa e simbolo dell'esistenzialismo stesso.
«Dio, valore e meta più alta della trascendenza, rappresenta il fine costante partendo dal quale l'uomo annuncia se stesso. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, oppure, se lo si preferisce: l'uomo è sostanzialmente desiderio di diventare Dio», sosteneva Sartre, sottolineando che l'uomo veramente libero e forte è un uomo senza Dio, senza la umiliante ricerca dell'Assoluto; l'uomo che, in un certo modo, crea se stesso, crea anche le proprie leggi, perché soltanto gli uomini deboli congiungono le mani in atto di preghiera. Ed allora Claudel, eccellente scrittore cattolico, ironizzava nel suo «Diario»: «Sartre sostiene che Dio è morto, ma dimentica che Dio ha la brutta abitudine di risorgere al terzo giorno».
Dunque, in quel mondo che si decristianizzava, sorgevano iniziative e idee che attingevano linfa dal pensiero cattolico, e che suscitavano attenzione, anzi un interessamento tutto particolare. Queste idee però non si propagavano ad una vasta cerchia di persone e difficilmente le si potrebbe considerare rappresentative della massa dei fedeli.
Tutto ciò non sfuggiva all'attenzione del sacerdote venuto dalla Polonia, che cercò di accostarsi ai giovani lavoratori francesi raccolti intorno alla J.O.C. (Jeunesse Ouvrière Chrétienne). Segretario della organizzazione era un belga, il reverendo Marcel Eulembroeck, amico di Wojtyla fin dai tempi dell'Angelicum. In particolare due sacerdoti della J.O.C., Godin e Daniel, attirarono l'attenzione di Wojtyla per le idee esposte in un loro libro, assai diffuso in Francia, intitolato: «La France pays de mission?», la Francia paese di missione? La Francia un paese che da capo bisognava avvicinare al Cristo, nonostante la sua plurisecolare tradizione cristiana ed il nobile titolo di «figlia primogenita della Chiesa»?

MISSIONE IN FRANCIA

Proprio questo libro e le impressioni riportate dalla Francia furono il tema di un articolo di Wojtyla, pubblicato nel 1949 sul «Tygodnik Powszechny» («Settimanale Universale») di Cracovia, con il titolo di «Mission de France». In esso l'autore descriveva gli sforzi del movimento «Mission de France», fondato dal reverendo Godin, che tendeva a modificare le forme esistenti dell'attività pastorale. Con una forte dose di simpatia si parlava in quell'articolo dello spirito di povertà e dell'imparzialità che caratterizzavano queste azioni e si segnalava la tendenza a semplificare la liturgia; si informava altresì che era in corso la formazione di un nuovo tipo di sacerdote e persino di un nuovo tipo di cattolico secolare.
Proprio dal movimento «Mission de France» uscirono i preti-operai che, oltre a svolgere i loro compiti sacerdotali, lavoravano nelle fabbriche, cercando in questo modo di avvicinarsi ai lavoratori manuali per riconquistarli alla Chiesa, il che costituiva la fondamentale scommessa di questo movimento riformatore.
Wojtyla osserva che questo nuovo modello di apostolato «è una delle forme irruenti della rivelazione dello Spirito Divino, che segna la vita della Chiesa, indicando sempre diversi e mai battuti sentieri».

UNA GRANDE ILLUSIONE?

Come si sa, il movimento dei preti-operai non ottenne l'approvazione della Santa Sede, anche se non si metteva in dubbio la lealtà delle intenzioni che lo ispiravano: sotto certi aspetti anzi l'attività della J.O.C. poteva essere utile ad instaurare un rapporto più intenso fra il cattolicesimo e la realtà dei nostri tempi. Nel il cardinal Wojtyla, nel suo libro «Alle basi del rinnovamento», dedicato ai problemi del Concilio Vaticano II, scriveva che i giovani della J.O.C. avevano capito la grande importanza della partecipazione attiva dei cattolici laici alla vita della Chiesa e avevano formulato e sviluppato un metodo di apostolato laico che fu poi sancito dal Concilio Vaticano II nel Decreto sull'apostolato dei laici.
In quella movimentata estate del 1947 il reverendo Wojtyla visitò pure i centri operai dei Polacchi emigrati in Belgio ed in Francia, dove s'imbatté in un tipo di cattolicesimo ben diverso da quello conosciuto in Polonia. Anche a proposito di questi emigrati polacchi, molti dei quali, in quel periodo, stavano facendo ritorno in patria, si potrebbero citare le amare profezie di Mounier: «In molti paesi dell'Occidente ci si domanda se il cristianesimo, che a noi sembra ancor forte, non sia al giorno d'oggi una grande illusione. Sullo sfondo delle cerimonie tradizionali e della corrente assonnata delle folle, si possono notare, minuti ma sempre più fitti - come le gocce della pioggia che preannuncia la tempesta - i segni di un diluvio, forse catastrofico, che cancellerà le vestigia del cristianesimo».
Il giovane sacerdote seguiva senz'altro con attenzione le opinioni del fondatore di una delle correnti del «personalismo» nascente, e non tralasciava di leggere ogni articolo di «Esprit», il periodico fondato dallo stesso Mounier. Sulle diagnosi del pensatore francese era indotto a meditare profondamente, anche per l'esperienza maturata a contatto con un Occidente ormai reso laico, accanto ai lavoratori emigrati del suo paese.

PERSONALISMO TOMISTICO...

Dobbiamo soffermarci un momento su questo punto per capire in quale contesto culturale maturavano le scelte intellettuali di Giovanni Paolo II: Mounier ed il suo personalismo sono, per questo aspetto, degni di una attenzione particolare. Non dimentichiamo che l'Angelicum, avendolo introdotto alla comprensione dei significati più profondi del pensiero di S. Tommaso aveva, per ciò stesso, sensibilizzato Wojtyla alle idee del moderno «personalismo», anche se non proprio nella forma radicale del Mounier, il quale, con le sue implicazioni sociali e politiche, finiva per essere troppo coinvolto in questioni pratiche e contingenti che esulano da competenze religiose. Infatti, questa filosofia partiva dalle premesse teologiche e filosofiche del pensiero di S. Tommaso, in special modo dalla sua filosofia morale e dal famoso principio secondo il quale l'uomo è prima di tutto «rationalis» o addirittura, come diceva Boezio: «persona est rationalis naturae individua substantia» (la persona è sostanza individuale di natura razionale). Ecco così enunciati i due principi basilari di questa nuova filosofia: l'individuo e la persona. Intorno a questi cardini s'intreccia poi una gran moltitudine di altre precisazioni filosofiche legate alla dottrina cristiana.
Per questo, tale sistema filosofico fu denominato «personalismo tomistico». Ebbene, esso influirà in maniera determinante sull'evoluzione del pensiero etico e sociale di Karol Wojtyla. Lui stesso dirà, durante la IV Settimana Filosofica organizzata nel 1961 dal Circolo Filosofico Cattolico dell'Università di Lublino: «Il personalismo tomistico parte dal presupposto che il bene individuale della persona dovrebbe essere subordinato al bene comune al quale mira la collettività: la società. Ma questa subordinazione non può in alcun modo cancellare, o semplicemente svalutare la persona stessa. Esistono dei diritti della persona umana che devono essere garantiti dalle leggi della società. Senza queste leggi, infatti, non è possibile la vita della persona e la sua corretta evoluzione. La più importante di esse è la legge della libertà di coscienza, che è nemica del totalitarismo cosiddetto oggettivo, secondo il quale la persona umana dovrebbe essere totalmente sottomessa, in tutte le sue espressioni, alla società. Il personalismo tomistico sostiene invece che la persona si deve subordinare alla società solamente in ciò che è indispensabile al bene comune, partendo dal principio che il vero bene comune, anche se chiede alle persone seri sacrifici, non sarà mai una minaccia al vero bene individuale».

... E SAN GIOVANNI DELLA CROCE

Nel frattempo il giovane sacerdote Karol Wojtyla tornava ancora ad interessarsi, con rinnovato entusiasmo, al misticismo, subendo questa volta la suggestione del frate carmelitano e grande poeta lirico spagnolo S. Giovanni della Croce, così come un tempo aveva subito il fascino del mistico Jan Tyranowski. Il reverendo Wojtyla scoprì in San Giovanni della Croce un «maestro e guida delle anime protese verso Dio», il perspicace cantore della «buia notte» che unisce l'anima a Dio, un delicato disegnatore degli stati d'animo dell'uomo il quale, quando ritrova se stesso, scopre la sproporzionata piccolezza della propria natura, il «buio», nel confronto con l'immensità di Dio.
Fu così che nacque la dissertazione «Quaestio de fide apud S. Joannem a Cruce», presentata come tesi di laurea a padre Garrigou-Lagrange, che era un grande ammiratore ed un famoso commentatore del «Dottore Mistico», o «Dottore della Notte», come veniva chiamato S. Giovanni della Croce. Egli asseriva di poter cogliere punti di contatto tra i rapimenti mistici del grande carmelitano spagnolo e la filosofia di S. Tommaso, il che non doveva essere facile se si tien conto della giusta opinione di Jacques Maritain: «Consideriamo S. Giovanni della Croce un eminente dottore della più alta incomunicabile scienza, mentre invece S. Tommaso d'Aquino come un eminente dottore della scienza comunicativa».
Mentre scriveva la tesi su S. Giovanni della Croce, il rev. Wojtyla certamente pensava al suo amico sarto Jan Tyranowski, che nel frattempo si era ammalato, ed al coraggio con cui sopportava le sofferenze che la volontà divina gli imponeva. «Ringrazio tanto la cara nonna - così scriveva Wojtyla alla signora Szkocka - per tutte le notizie sul nostro Jan. Sì, sì, questo è il corso naturale delle cose: il Signore distrugge in questo modo quelli che si offrono volontariamente ad un tale sacrificio. Allego una lettera al caro Giobbe». Ma la lettera non è mai giunta all'interessato perché Tyranowski, dopo mesi di sofferenze che ebbero inizio da una puntura d'ago e lo portarono alla perdita della mano e poi dell'udito ed infine alla paralisi delle gambe, si spense nel marzo del 1947. Fino alla fine aveva sopportato la sua disgrazia con la forza d'animo dell'uomo di fede, mostrando il sorriso alla gente e continuando a parlare di religione.
Nel frattempo Wojtyla attendeva alla sua tesi; la confusione delle rumorose strade romane non riusciva a coprire la voce lontana del mistico di Cracovia, che faceva eco alle strofe appassionate del santo carmelitano:

«Per arrivare a quello che non conosci devi andare per dove non conosci.
Per arrivare a quello che non possiedi devi andare per dove non possiedi.
Per arrivare a quello che tu non sei devi andare per dove non sei» (12),
Questa è l'unica via attraverso la quale l'uomo può giungere alla trascendenza.

(12) "Salita al Monte Carmelo", I, 13, 11.

DI NUOVO ALL'UNIVERSITA JAGELLONICA

Si avvicinava il momento del ritorno in Polonia.
Il 30 giugno 1948 il sacerdote Wojtyla difende la sua tesi e riceve il titolo di Dottore in Teologia, senza però poterne ritirare il diploma perché ciò prevedeva una spesa che le possibilità economiche del nostro sacerdote non erano in grado di sostenere.
Cosa pensa il neodottore, ora che è giunto il momento di lasciare la città eterna?
Ecco cosa disse ai Romani, il 25 febbraio 1979, durante l'Angelus:

Conservo vivamente nella memoria il mio primo incontro con la Città Eterna. Ciò avvenne nel tardo autunno del 1946, quando venni qui dopo l'ordinazione sacerdotale per continuare gli studi. Giungendo, portavo dentro di me una certa immagine di Roma ricavata dalla storia, dalla letteratura e da tutta la tradizione cristiana. Per parecchi giorni camminavo per la Città (che allora non era ancora così estesa come oggi, e contava forse circa un milione di abitanti), e non riuscivo a ritrovare pienamente l'immagine di quella Roma, che da tempo portavo nella mia mente.
A poco a poco, la ritrovai. Ciò accadde soprattutto quando visitai le basiliche più antiche, ma ancor più quando visitai le Catacombe. La Roma degli inizi della cristianità! La Roma degli Apostoli! Questa Roma, che sta alle origini della Chiesa, e, nello stesso tempo, alle origini di quella grande cultura che abbiamo ereditato.

Così dunque parlò dell'incontro con Roma: ma dell'addio? Quell'addio di anni fa? Quanti ricordi affollavano la sua giovane mente! L'occupazione nazista della Polonia, il sacerdozio, l'incontro con il genio rinascimentale e barocco delle chiese e dei palazzi romani: l'incontro con Michelangelo e con il divino Raffaello, con la «sua» Roma delle catacombe; e poi ancora la gioia di poter ammirare le fontane zampillanti verso il cielo dipinto con la delicatezza di un Leonardo. Quando per l'ultima volta salì le scale della Basilica di S. Pietro, certamente non pensò che dopo molto tempo, precisamente dopo trent'anni, avrebbe varcato ancora una volta quella soglia, davanti agli occhi di tutto il mondo, e ormai per sempre.
Tornato in patria, superò un altro esame di magistero alla Facoltà di Teologia dell'Università Jagellonica (novembre 1948), dove ridiscusse anche la dissertazione «Sui problemi della fede secondo S. Giovanni della Croce», ottenendo ancora una volta il titolo di Dottore, questa volta in polacco.
La tesi, rispetto alla stesura preparata per l'Angelicum, venne in alcuni punti corretta grazie all'aiuto che Wojtyla ricevette dai due sacerdoti professori Ignacy Rózycki e Wladyslaw Wicher. Ebbe sempre la fortuna di incontrare maestri e tutori eccellenti!

IL VICARIO DI NIEGOWIC

Quasi contemporaneamente il rev. Wojtyla ricevette il suo primo incarico pastorale come vicario in una parrocchia di campagna, Niegowic, vicino a Bochnia. Dal libro dei sacerdoti di Niegowic sappiamo che la nomina avvenne l'8 luglio 1948, ma che solamente il 28 Wojtyla raggiunse la sua parrocchia «post studium romanum».
Uno dei parrocchiani ricorda bene quel giorno: «Andavo con il carro trainato dal cavallo, quando per la strada vidi un prete vestito malamente, la tonaca quasi logora, le scarpe vecchie ed una cartella malandata. Quando venni a sapere che questo prete sarebbe stato il nostro vicario, mi meravigliai immensamente della povertà del suo aspetto».
Il nuovo vicario sorprese i fedeli: più di una volta i soldi che riceveva durante le visite di Natale li regalava ai contadini più poveri; regalò anche le lenzuola, donategli dai parrocchiani, ad una povera vecchia che era stata appena derubata. La gente si sdegnava: il loro giovane pastore dormiva sul nudo materasso, malgrado essi avessero fatto sacrifici per offrirgli un corredo!
Eppure, riuscì a conquistare il cuore di tutti.
Dopo la messa lo si vedeva spesso pregare in solitudine nella chiesa; oppure lo si vedeva raggiungere, con il carretto o con la bicicletta, le più sperdute case di Niegowic, senza badare alla pioggia o alle strade scoscese, o al buio delle notti di quella campagna polacca non ancora raggiunta dall'elettricità.

A SAN FLORIANO

Passò un anno e l'arcivescovo decise di trasferire il vicario Wojtyla nella vecchia e storica parrocchia di S. Floriano, in Cracovia. Sotto le nobili navate barocche di questa chiesa, una delle cinque più antiche della città, passarono molti personaggi illustri e molta gloria. Tornano in mente i nomi del venerato vescovo Wincenty Kadlubek, colui che consacrò la chiesa; di Wladyslaw (Ladislao) Jagiello, che qui ricevette il battesimo prima di accedere al sacramento del matrimonio, e all'incoronazione, e del grande cancelliere del re, Cardinale Zbigniew Olesnicki, che di questa chiesa era stato parroco.
Il giovane vicario si sentì accolto dal Kleparz, un quartiere di Cracovia, quasi con la famigliarità delle sue montagne native di Beskid. La storia ricorda che Marcin Wadowita fu parroco proprio qui, e ancor prima di lui il Santo Giovanni Kanty svolgeva qui il servizio sacerdotale; ambedue insegnavano nella vicina «Alma Mater». Anche adesso la parrocchia era governata da un parroco preposito proveniente da Wadowice: un ex-cappellano dell'Arcivescovo Metropolita e membro del Collegio dei Canonici, il sac. Tadeusz Kurowski. Fu lui anche la guida spirituale degli studenti; le sue magnifiche omelie contribuivano ad accrescere le schiere dei discepoli; c'è da dire tuttavia che il nuovo vicario cominciò presto ad essere alla sua altezza: invitato una volta dalle suore Nazaretane di via Warszawska per tenere un ciclo di conferenze per i loro assistiti, si rivelò un eccellente conoscitore dell'uomo, riscuotendo particolare simpatia tra i giovani. Karol, non badando ai rimproveri di sua zia Stefania, donna piena di sollecitudine che lo aiutava nelle faccende domestiche, si recava al cinema ed a teatro con i giovani amici della parrocchia, giocava a scacchi e al calcio, organizzava escursioni in montagna indossando naturalmente gli abiti borghesi, il che gettava la zia nella più nera disperazione. Era simpatico a tutti, non solo per la sua giovane età, per la sua vitalità e abilità fisica, ma soprattutto per il fascino che esercitava con la sua parola, ponderata e suggestiva, tanto nelle prediche dal pulpito, quanto nelle conversazioni private.

RITRATTO DI GIOVANE PRETE DA POVERO

Lo scrittore e critico letterario Andrzej Kijowski conserva di lui questo ricordo: «Era smilzo, portava un berretto sbiadito, una sottana troppo corta dalla quale venivano fuori le braghe grige. Le mani sempre nascoste nelle tasche, un leggero mantello. Lo sguardo acuto, il passo svelto. Molto diverso dai nostri sontuosi prelati che si coprono con ampi mantelli, indossano cappelli a larghe falde.
Mia madre mi consigliò di andarlo a sentire. Dopo una prima volta vi tornai ogni domenica, ma di nascosto perché il mondo, a cui mostravo la mia faccia anticlericale ed il mio ateismo, non lo sapesse. Entravo furtivamente nella chiesa di cui conoscevo ogni angolo, ogni candelabro, ogni paramento e, mescolato tra la folla, ascoltavo quel nuovo giovane parroco.
Ero sorpreso da ciò che diceva, pur non arrivandomi nuovo; se io avessi dovuto parlare della moltiplicazione dei pani, della resurrezione di Lazzaro, di Maria Maddalena, lo avrei voluto fare allo stesso modo, ma forse non ne sarei stato capace. Wojtyla analizzava la figura di Gesù come noi, alle lezioni del professor Wyka, analizzavamo un personaggio della letteratura; Cristo sulla sua bocca ridiventava una persona viva.
Analizzava lo stile letterario della Sacra Scrittura e sottolineava le correlazioni esistenti tra questa e la tradizione. Il mistero della Salvezza veniva spiegato con l'insieme degli eventi storici che avevano portato all'affermarsi della Buona Novella. Nelle sue omelie la teologia e l'antropologia formavano un tutt'uno. Ed ogni cosa diventava chiara. Chiare erano le parole, chiaro il timbro della voce e lo scandire delle sillabe, chiaro lo sguardo che egli gettava dal pulpito di ebano e di oro della nostra chiesa di Kleparz...
Un giorno ci siamo incontrati davanti a casa mia. Faceva freddo, entrambi camminavamo intirizziti con le mani nelle tasche. Io avevo ventidue anni, e lui trenta. Sapeva di me, dalle lunghe conversazioni che aveva avuto con mia madre, molto più di quanto avrei desiderato. Vedendomi rallentò e quasi si fermò a guardarmi, indugiava... Lo sorpassai sfiorando il suo braccio, senza una parola né un gesto, perché sulle mie spalle sedeva il demone dell'orgoglio. Affondando ancora di più le mani nelle tasche, incrociai il suo sguardo chiaro ed interrogativo; mi sentii avvampare».

UN ALTRO INCONTRO E LE PRIME POESIE

Anche la scrittrice cattolica Janina Hertz, gravemente mutilata, ricorda il suo primo incontro con il giovane vicario. In un primo momento ella rimase quasi spaventata, tanto erano lontane le sue parole dalle solite frasi banali di compassione; egli esigeva dalla giovane donna lo sforzo di combattere la sua vera debolezza: il complesso d'inferiorità. Essendo al corrente degli interessi letterari di lei, non solo le facilitò il debutto sulla stampa ma spesso si intratteneva con lei per discutere sugli obblighi dello scrittore nei confronti di Dio e della società. Obblighi che egli stesso sentiva quando, nella sua camera, chino su un pezzo di carta, componeva versi in cui si mescolavano i pensieri del giorno con quelli della notte. Intanto le sue poesie cominciavano ad apparire sulla stampa. Ma che cosa era per lui, in fondo, la poesia? Sicuramente non era la trascrizione delle proprie emozioni passeggere, né una parata di belle frasi che non sarebbero piaciute né a Merton né, prima di lui, a Kierkegaard, per il quale la poesia si identificava con l'estetismo, e il quale sosteneva che «il poeta rimane tale fino a che non è un cristiano». Mentre della poesia di Andrzej Jawien (uno degli pseudonimi di Karol Wojtyla) si può dire quel che lui stesso aveva detto del mistico carmelitano S. Giovanni della Croce: «Nella poesia si può giungere a far balenare l'indicibile, tutto quel che sfugge al linguaggio prosaico e alla terminologia scientifica; si può infondere coraggio ed esprimere rimprovero».
La prima poesia di Andrzej Jawien fu pubblicata nel 1950 sul «Tygodnik Powszechny», sotto il titolo «Il canto dello splendore dell'acqua». In questi versi risuonano le parole che Cristo pronunciò per noi tutti durante l'incontro con la Samaritana che comincia a capire la verità sull'«acqua viva» ed ascolta con illimitata fiducia quanto le dice colui che ella crede il Profeta:

Non siete soli nel vostro cammino.
Mai, neppure un istante, da voi si stacca il mio profilo
e in voi diventa verità, sempre diventa verità
e nella vostra viva onda, uno squarcio insondabile.

Il mio volto
bruciato dal deserto delle vostre anime, sempre
cancellato dal soffio di uno strano sopore -
Perché non mi togliete la vostra croce come io ve
la tolsi? - quando vi bruciava le spalle e s'inclinava
sul vostro ansante respiro.

Le parole sembrano rivolte alla gente di oggi, alla semplice gente delle strade di Cracovia, a noi tutti:

No, no - non siete solo voi - e seppure lo foste
la vostra presenza non solo è durevole, ma rivelatrice.
Purché si aprano gli occhi in altro modo,
un modo tutto diverso
e purché non si scordi la visione che allora appagava
lo sguardo.

Hanna Malewska, redattrice di «Znak» («Il segno», mensile cattolico polacco), ricorda che proprio in quei tempi il vicario «dalla tonaca sbiadita» le presentò il testo di un dramma incentrato sulla figura di frate Alberto, pio elemosiniere e protettore di tutti i derelitti. Sapientemente la Malewska sottolinea una certa analogia esistente tra la figura di frate Alberto e lo stesso Wojtyla. Infatti, Alberto smette la tipica mantella di bohémien e indossa una ruvida tonaca da frate proprio quando ormai veniva da tutti riconosciuto il suo talento di pittore: sacrifica la sua esistenza d'artista per entrare in convento. E il nostro giovane prete non ha forse allo stesso modo sacrificato la propria vocazione artistica per abbracciare il sacerdozio? Anche lui operò dunque una scelta più severa per esprimere il proprio animo e solo in rari momenti componeva poesie d'ispirazione religiosa, o recensiva gli spettacoli degli amici del Teatro Rapsodico...
Nella parrocchia di San Floriano il reverendo Wojtyla rimase come vicario dal 1949 al 1951. Nel luglio di quello stesso anno moriva, onorato ormai dal titolo di cardinale, il Principe Metropolita Sapieha. Venticinque anni dopo, nel 1976, i fedeli gli dedicheranno un monumento che si trova davanti alla chiesa dei Francescani; Sapieha, il grande Pastore della Chiesa cracoviense, vivrà ancora nella preghiera dei fedeli. Karol Wojtyla, cui Sapieha aveva mostrato sempre la sua benevolenza, dirà di lui con tenero ossequio: «Il suo ricordo ci riporta a quei giorni ed a quelle notti che furono tra i più dolorosi per il popolo polacco, riscattati solo dalle sofferenze, dalla prigione, dalle fucilazioni, da Auschwitz e dagli altri campi di concentramento». Intanto le spoglie dell'anziano Metropolita venivano tumulate nella cripta della Cattedrale di Wawel ai rintocchi della campana «di Sigismondo», che suona unicamente nelle grandi occasioni.
Wojtyla, vicario della parrocchia ancora per poco, l'anno successivo otterrà dall'Arcivescovo Eugeniusz Baziak una licenza biennale per prepararsi all'esame di abilitazione.

LO STUDIO SU SCHELER

Il giovane prete prese allora alloggio presso il reverendo professor Rózycki, in via Kanonicza 19, dirimpetto a Wawel, ed iniziò il faticoso lavoro di ricerca nelle biblioteche.
Nell'autunno Wojtyla supera l'esame con una tesi intitolata «Valutazioni sulla possibilità di costruire l'etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler» (edito in Italia: ed. Logos, 1980). Promotore della tesi fu il rev. prof. Wicher, acuto pensatore di origine contadina e professore di teologia morale all'Università Jagellonica, il quale spesso rivolse la sua attenzione ai problemi contemporanei quali l'aborto, la sessualità, l'alcoolismo, l'etica dello sport, andando quindi oltre la sfera delle questioni puramente teoriche. Lo scienziato non soffocava in lui il pastore. Accanto a lui vi erano i due relatori della tesi: il prof. Adam Usowicz e il prof. Stefan Swiezawski, noto filosofo che si vedrà poi invitato come osservatore al Concilio Vaticano II e diverrà grande amico di Wojtyla. Non passerà molto tempo e i due filosofi si troveranno fianco a fianco ad insegnare nella stessa università, e poi a partecipare insieme a simposi e congressi scientifici, e infine a fare lunghe «conversazioni peripatetiche» sui sentieri più scoscesi delle montagne.
Lo studio sul sistema di Max Scheler, un eminente filosofo tedesco morto nel 1928, ha influito non poco sull'orientamento scientifico del sacerdote Wojtyla, che incominciò ad occuparsi dell'etica alla luce della più importante corrente filosofica contemporanea, la fenomenologia.
A Cracovia il futuro papa aveva avuto l'occasione d'incontrarsi con un altro illustre rappresentante di questa corrente, Roman Ingarden, professore nell'Università Jagellonica fin dal 1945, che si era reso famoso nel mondo per i suoi scritti filosofici ed etici.
La fenomenologia, trovando nell'intuizione uno strumento sostanziale per la cognizione dei fenomeni della vita esteriore, e puntando sull'analisi della loro essenza e dei legami che li uniscono alla «coscienza pura», si opponeva alle tendenze filosofiche miranti al ridimensionamento dei valori religiosi. Scheler infatti introdusse il metodo fenomenologico anche nel campo religioso ed etico: due fenomeni che lo interessavano particolarmente, in special modo quello della religiosità, che considerava elemento fondamentale della coscienza umana. Per questi studi si avvalse del prezioso apporto di filosofi cattolici.
Nella sua tesi intorno al sistema etico di Max Scheler (pubblicata in Polonia nel 1959) il sacerdote Wojtyla muove molte obiezioni ed esprime qualche riserva, pur apprezzandone, nel complesso, l'impostazione generale: constata, prima di tutto, che il filosofo tedesco non vede nel Dio-Assoluto la «persona exemplaris» e che attenua il ruolo della coscienza nella vita morale della persona umana non prendendo in considerazione la sua «relatio causalis» verso i valori etici.
Ma, al di là di queste considerazioni, la tesi dimostra che un certo legame positivo con la fenomenologia si è instaurato, il che influenzerà in qualche modo le successive meditazioni e ricerche di Karol Wojtyla nel campo dell'etica.
Scriverà Wojtyla: «Agli studi di Max Scheler sul sistema etico dobbiamo la crescente attenzione sul ruolo, innegabilmente positivo, svolto dall'approccio fenomenologico ai problemi dell'etica. Nello stesso tempo però questi studi ci convincono che il pensatore cristiano, specie se teologo, pur avvalendosi dell'esperimento fenomenologico non può mai essere fenomenologo, perché la fenomenologia, rigorosamente applicata, lo indurrebbe a credere che il valore etico si verifichi 'occasionalmente' nella vita 'vissuta' della persona. Il compito del teologo-etico, invece, sarà sempre quello di analizzare il valore etico dell'agire umano alla luce di princìpi obbiettivi».
La vasta dissertazione sul sistema di Scheler appartiene senz'altro alle opere pionieristiche in questo campo; a parte ciò, traspare in essa, come del resto in tutte le opere poetiche e scientifiche di Wojtyla, la mentalità del «pastore».

TUTTI LO VOGLIONO

Dopo aver ottenuto il titolo di dottore, il sac. Wojtyla insegnerà, nel 1953, teologia morale ed etica nel Seminario Teologico, e per due semestri terrà anche le lezioni di etica sociale presso la facoltà di teologia dell'Università Jagellonica. Era ormai conosciuto come eccellente studioso e predicatore e come un sacerdote capace di mantenere ottimi rapporti, specie con i giovani. Mons. Ferdynand Machay, morto nel 1967, arciprete della chiesa di Maria Madre di Dio, parlava di lui con grande stima ed affetto. Qualcuno ricorda questa frase scherzosa detta da Machay: «... Si immagini la scena (...) Sto nella mia sacrestia; qualcuno bussa, socchiude la porta e domanda a voce bassa: 'C'è forse il reverendo Wojtyla?'. Rispondo che non c'è. Dopo un po' bussa un altro tizio e poi ancora un terzo, e un quarto: tutti vogliono Wojtyla! Ma Dio buono! - esclamo all'ennesima richiesta - sempre Wojtyla e Wojtyla! Come se io non ci fossi, qui! Io, il Parroco!».
Ma si trattava comunque di finti lamenti: in realtà Mons. Machay apprezzava il giovane prete tanto da parlarne al professor Swiezawski che, conoscendo ormai Wojtyla, lo introdusse nell'università dove lui stesso insegnava. Infatti nel 1954 Wojtyla veniva invitato dal decano della facoltà di filosofia, prof. Jerzy Kalinowski, a Lublino. Ebbe così la possibilità di tenere lezioni d'etica, che dopo due anni divennero un corso stabile, quando Wojtyla venne nominato titolare della Cattedra di Etica all'Università Cattolica di Lublino; questo ebbe luogo quando il precedente titolare della cattedra, il domenicano Feliks Bednarski, partì, nel 1956, per Roma, per insegnare all'Angelicum.

DOCENTE UNIVERSITARIO

Il 31 dicembre 1957 Wojtyla ottiene il titolo di docente. Da quel momento, ogni due settimane il dottore Wojtyla prendeva il treno di notte per recarsi a Lublino. Viaggiava spesso in compagnia di altri due professori, il sac. prof. Franciszek Takarz dell'università cattolica, ed il prof. Jerzy Korohoda dell'università Maria Curie-Sklodowska, sempre a Lublino. Insegnò all'università fin quasi alla sua elezione del 16 ottobre 1978.
Naturalmente con gli anni erano aumentati gli incarichi e i doveri legati a sempre nuove nomine ecclesiali, tanto che non di rado era costretto a trasferire le proprie lezioni a Cracovia, e ad invitare colà i collaboratori e gli allievi.
Di questa lunga, quasi ventennale esperienza all'università, sono rimasti molti ricordi. Il rettore, per esempio, il domenicano padre Mieczyslaw Albert Krapiec, eminente filosofo tomista, così ha descritto il lavoro del pedagogo Wojtyla: «Il sac. prof. Wojtyla sin dall'inizio introduceva l'uomo, come soggetto della morale, al centro del problema. Per lui la filosofia si focalizzava soprattutto sull'esistenza individuale come momento più alto della realtà. Sottolineava l'importanza per la persona umana di esperimentare se stessa e gli altri negli incontri di gruppo, e soprattutto nell'intimo contatto della confessione; perché è appunto in questa occasione che l'uomo si scopre totalmente; svela le proprie esperienze morali; le proprie intenzioni; le circostanze che hanno accompagnato l'atto; la stessa intenzione dell'atto; la chiarificazione del movente che ha determinato l'azione immorale. Il dramma della persona umana che si palesa durante il dialogo della confessione era per il prof. Wojtyla un'esperienza sempre più ricca, intorno all'ente morale che doveva essere spiegato anche dal punto di vista filosofico».
Prima di tutto, quindi, il problema religioso, poi quello della persona: l'essere umano, una struttura etica mai approfondita sufficientemente, ma affascinante; quell'ente morale che, prima di definirlo con nozioni filosofiche, è necessario capire attraverso la propria esperienza individuale. Questo era il fondamento del pensiero e della pedagogia del professor Wojtyla, futuro Papa.
Quando arrivò all'università di Lublino per tenere le sue lezioni, sembrava uno dei tanti giovani studenti, ma col tempo quest'insegnante dalla tonaca sbiadita e dalle scarpe malconce riuscì a far conoscere la propria personalità non molto professorale, ma profondamente affascinante, specie per quella equilibrata fusione di religiosità ed erudizione, per la inconsueta semplicità, per la riflessività e lo slancio, per il garbo e la risolutezza.
Le lezioni del prof. Wojtyla, pur svolgendosi nell'aula più ampia dell'università, erano affollatissime: gli studenti sedevano sui banchi, per terra, contro le pareti, sui davanzali delle finestre. «Lo zio Karol» aveva sempre una folla di uditori. «Lo zio Karol»... Io chiamavano così, con questo simpatico soprannome che sottolineava, cogliendo nel segno, le virtù bonarie del nostro professore, il quale, oltre a prestare buoni consigli e sorrisi incoraggianti, spesso «imprestava» soldi con «rimborso a lungo termine», nell'aldilà!
Gli studenti sapevano dove trovarlo durante l'intervallo: immancabilmente egli era assorto in preghiera nella cappelletta del convitto o nella chiesa. Il breviario faceva costantemente da sostegno alla catasta di libri di cui si serviva questo studioso; quel libricino fungeva da pilastro alla sua gran mole di scienza.
Ma lo si poteva trovare pure alla mensa studentesca o al capezzale di qualche malato.
Questo sacerdote evitava di assumere qualsiasi atteggiamento che aggiungesse autorità alla sua autorevolezza e sottolineava spesso: «Colui che si occupa dell'etica deve testimoniare con la propria persona questo bene di cui viene a conoscenza e che vuole insegnare agli altri».
Wojtyla all'Università Cattolica di Lublino col rettore Krapiec

UN TIPO UNICO

L'università cattolica di Lublino, pur non essendo antica (nel 1978 ha celebrato i suoi sessant'anni) è ormai universalmente conosciuta come centro del pensiero tomistico, che ospita spesso studiosi di tutto il mondo.
Ma la sua vita non cessa con la chiusura delle aule; essa continua in incontri privati. Studenti e sacerdoti continuano a vedersi sul campo da gioco o durante le serate piene di canti e di scherzi, la più attesa delle quali era la festa annuale detta «eutrapelia», ove la serena allegria prende l'abbrivo con l'inno dei filosofi:

... a
a
a
eutrapelia,
a a a eutrapelia,
o beata tempora
ibimus in nemora...
(... o che tempi beati, andremo nei boschi ...)

Una volta, così scherzando, gli studenti inventarono un plebiscito: ad ogni professore venivano assegnati dei voti, usando però unicamente un doppio criterio: saggio non saggio e santo - non santo. Come ricorda il rev. dott. Tadeusz Styczen, il più vicino collaboratore del futuro papa alla cattedra di etica, si poteva disporre così di quattro possibilità, quattro «classi» di combinazioni: quella dei saggi-non santi; dei non-saggi-santi; dei non-saggi-non-santi ed infine quella dei saggi-santi. Fortunatamente però gli studenti, che di solito sanno essere spietati anche se per se stessi pretendono un trattamento «con i guanti», quella volta non condannarono «all'inferno» nessuno mediante la terza categoria. Però la quarta classe andò quasi deserta, poiché, un solo professore ne fu degno: Karol Wojtyla.
Dunque, fin d'allora, agli occhi degli studenti egli faceva classe a se stante. Vox populi?...

IN SILENZIO SUI MONTI

Il «saggio-santo», anche se disponeva di poco tempo libero non tralasciava le sue distrazioni giovanili: lo sport e le escursioni, spesso in compagnia dei suoi collaboratori di Lublino. Ma lo scopo di queste sue evasioni non era semplicemente lo sport e il riposo! La natura offriva meravigliosi luoghi appartati dove, seduti su di un ceppo dorato di resina, o sulla soglia di un vecchio ovile, o sulle pietre scaldate dal sole, o ancora in mezzo a un pascolo ove silenzio e immobilità regnavano, essi potevano pregare insieme, discorrere e dissertare di problemi etici, oppure semplicemente tacere. Mons. Kazimierz Majdanski ricorda che una volta, mentre col passo cadenzato s'inerpicavano sui Tatra, fu lanciata una proposta: «Ora sarebbe meglio stare in silenzio per mezz'ora; questa era l'abitudine di San Giovanni della Croce quando camminava con gli amici».
«Durante le escursioni Wojtyla non sopportava di 'gingillarsi', ricorda uno studente che negli anni cinquanta lo accompagnava in canoa. Il percorso, una volta stabilito, doveva essere rispettato. Lui era considerato il capogruppo spirituale, mentre agli altri spettavano le decisioni organizzative e tecniche. Il gruppo era composto da un ingegnere (il 'commodoro' della spedizione), da un'infermiera, dagli operai e, per la maggior parte, da studenti. La mattina presto Wojtyla celebrava la S. Messa, dopo era uno di noi. La sera, accanto al falò, cantava. Era l'animatore del canto perché conosceva un gran numero di canzoni. Un particolare mi è rimasto nella memoria: la riservatezza dei suoi discorsi; le sue omelie erano brevi, concise; pochi concetti, ma sempre profondi e toccanti. Sapeva ascoltare in modo meraviglioso. Con brevi monosillabi incoraggiava a parlare. Senza parere, induceva a portare il discorso verso una direzione ed aiutava il suo interlocutore a giungere a giuste conclusioni.
Ero allora troppo giovane per saper apprezzare sino in fondo queste ore di intensivo remigare, durante le quali lui recitava pure il breviario».
Karol Wojtyla nel 1958 pochi giorni prima della sua nomina a vescovo

L'INFULA

Proprio durante una di queste gite ricevette un inaspettato telegramma: lo pregavano di ritornare dalle vacanze il più presto possibile... perché era stato nominato vescovo.
Era l'inizio dell'estate 1958. Wojtyla all'arrivo del telegramma si trovava a Santa Lipka, una campagna della regione di Warmia, situata sulla riva sinistra del lago omonimo, famosa per la sua bella chiesa barocca dove l'immagine e la statuetta della Madonna miracolosa attirano un gran numero di pellegrini. In quel frangente il reverendo professor Wojtyla si trovava a discutere del libro (poi pubblicato con il titolo «Amore e responsabilità») cui stava lavorando. Il telegramma sorprese tutti; un'enorme impressione si mescolò al rammarico. Gli studenti subito capirono che l'infula vescovile avrebbe non solo strappato il loro Maestro da una vacanza appena incominciata, ma li avrebbe anche privati per sempre dall'amato professore, che forse mai più sarebbe tornato alla cattedra di Lublino.
Sapevano anche, però, che, come S. Agostino disse: «Roma locuta, causa finita».
Portarono allora Wojtyla sulle spalle fino all'autobus, e lui, emozionato e imbarazzato per i festeggiamenti che gli venivan fatti lungo la strada di campagna, promise di tornare da loro, di tornare alle loro canoe.
Non gli credettero.
Ma lui, dopo qualche giorno, tornò.
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